Un film ambizioso ma irrisolto
di Fabio Piccinini
Siamo a New York City, nel 1989. Una sera d’inverno il celebre scrittore Jake Davis (Russell Crowe) è alla conduzione della sua vettura, con la moglie e la figlioletta Katie (Kylie Rogers) a bordo. Inizia un violento diverbio fra i due coniugi, la guida diventa concitata e l’incidente incombe. La donna muore. L’uomo ne è straziato e comincia a soffrire di una grave depressione che sovente sfocia in crisi epilettiche eccezionalmente intense.
Non è più in grado di prendersi cura della bambina, che ama teneramente. È costretto al ricovero presso una clinica psichiatrica. Durante la sua assenza ad occuparsi della piccola sarà la ricca zia Elizabeth (Diane Kruger), sorella della madre defunta. Dopo alcuni mesi Jake viene dimesso e torna a riprendersi Katie, ma la cognata, che palesemente lo detesta ritenendolo colpevole di tutto quanto avvenuto, gli dice di non crederlo in grado di crescere la figlia a causa dei suoi squilibri mentali ancora irrisolti. La donna e il marito avvocato (Bruce Greenwood) intentano quindi contro Jake una causa per ottenere la custodia della piccola, gettando nella costernazione il padre che ricade negli eccessi della propria patologia. Inoltre il nuovo libro di Jake è fatto a pezzi dalla critica e ignorato dal pubblico.
La depressione dell’uomo si avvita su se stessa e soltanto nella stesura di un nuovo romanzo, intitolato Fathers and Daugthers, che ha come argomento il suo struggente rapporto con Katie e al quale lavora furiosamente, Jake ripone le sue speranze di accedere ad una nuova e migliore esistenza per entrambi. Il libro ha effettivamente un grande successo e vince persino il premio Pulitzer, ma questo Jake non lo vedrà. Una sera il suo male lo aggredisce ancora una volta e l’uomo cade esanime sul pavimento del bagno dell’appartamento dove vive con Katie.
New York City, venticinque anni dopo. Katie (Amanda Seyfried) è ormai diventata una giovane donna, brillante studentessa di psicologia, ma dalla vita sentimentale devastata dalle tracce della sua difficile infanzia. Si concede a molti senza remore, cercando di sublimare nel sesso la sua frigidità sentimentale e trascinandosi dentro lo spezzato rapporto col padre, unico uomo che abbia veramente amato. L’aiuto che presta come terapeuta ad una ragazzina (Quvenzhanè Wallis) chiusa in un ostinato mutismo causa gravi disagi famigliari (nella quale evidentemente Katie si riconosce) e l’incontro con Cameron (Aaron Paul) con cui per la prima volta conosce l’amore (e con il quale, dopo aver affrontato dolorosamente e disperso i fantasmi del passato, sembra raggiungere finalmente un equilibrio emotivo), le consentiranno di rimettere insieme i frammenti della propria vita e di volgersi al futuro con fiducia.
Fathers and Daughters è il quarto film “americano” di Gabriele Muccino ed è un’opera irrisolta, riuscita a metà.
Muccino non rinuncia (anzi la potenzia drammatizzandola vieppiù) alla sua ormai caratteristica “estetica dei sentimenti”, giostrando una regia adulta, sicura, con rare sbavature o cadute di tensione. Anzi, con solido mestiere si concede anche raffinati scarti tecnici ed eleganti movimenti della macchina da presa, come il carrello che corre incontro al protagonista seduto alla scrivania ed intento a tamburellare sulla macchina per scrivere, come l’inquadratura in espansione di Jake morto, steso sul pavimento del bagno con postura vagamente cristologica, come lo scorrere della corsa ultima di Katie (la corsa è una cifra stilistica del regista) ed il suo traguardare in campo lungo, evitando saggiamente il prevedibile primo piano. Ed efficace e misurato è l’alternarsi di flash back e flash forward sul quale si dipana un soggetto carico di pathos, ben servito dal montaggio di Alex Rodriguez.
Ma il vulnus difficilmente redimibile del lungometraggio è la sceneggiatura (di Brad Desch) decisamente mediocre. Alcuni dialoghi poi, specialmente quelli che hanno al centro Katie, sono talmente parossistici nel cercare il climax tragico da rasentare l’involontaria comicità. Come quando, ad esempio, Cameron dice a Katie: «Non tutte le persone che ti amano ti lasceranno», e Katie risponde: «Questo lo so qui, ma non qui», indicando prima la testa e poi il cuore.
È una sceneggiatura che manca di quel tocco di leggerezza e ironia che sarebbe stato, vista la densità del soggetto, quanto mai opportuno, per stemperalo e smussarlo il giusto, evitando la caduta nella cupezza. Un tocco che al Muccino “italiano” non mancava e che probabilmente sarà parso troppo straniante alla produzione americana (che invece ha concesso l’inserimento della innocua battuta, epidermicamente autocritica, pronunciata da Jake: «Noi viviamo negli Stati Uniti dei soldi. Arte, amore, amicizia non hanno più alcun valore. Solo i soldi.») E non basta l’unico affondo sanamente sarcastico di tutto il film: «Non so perché Dio abbia creato gli scarafaggi e i critici».
Russell Crowe è molto bravo. La sua recitazione è tesa, misurata, non eccede in facili istrionismi e permea di sé il lungometraggio. Si vede che l’attore ha creduto e aderito con convinzione al progetto (e infatti è anche produttore).
Notevoli anche i tratti che Diane Kruger ha dato alla sua Elizabeth: alcolista, algida, sola, disperata. Da sottolineare l’interpretazione non scontata di Kylie Rogers nel ruolo di Katie bambina, mentre è abbastanza deludente la performance della Seyfried come Katie adulta, fuori parte. Gli altri interpreti (fra cui Jane Fonda) hanno recitato con buon mestiere.
Azzeccata la scelta delle canzoni, con un piacevole cameo di Jovanotti e non indimenticabili le musiche di Paolo Buonvino.
Interessante la fotografia di Shane Hurlbut, con frequenti inserti coloristici caldi che si interfacciano come utile controcanto alla resa spesso autoreferenziale della pellicola.