Il nuovo film di Leconte convince a metà
di Fabio Piccinini
Sabato mattina. In un mercatino parigino dell’usato, Michel Leproux (Christian Clavier), agiato professionista di mezz’età (conduce uno studio dentistico), musicofilo jazz e accanito collezionista di vinili, scova per caso un disco leggendario (almeno a suo dire) che cercava da decenni: una rara incisione di Me, Myself and I di Neil Youart, virtuoso del clarinetto e idolo di Michel, il quale immediatamente acquista il prezioso reperto, magnificandolo di fronte ad uno stupito vendeur.
Da quel momento l’unico proposito che il Nostro tenterà indefessamente di perseguire a dispetto di tutto e tutti sarà ascoltare l’incisione nella pace del suo elegante appartamento (il titolo originale del film è Une heure de tranquillité), ma l’impresa si rivelerà ardua.
L’uomo infatti, ancor prima di arrivare al suo indirizzo, viene importunato da un cliente che, riconosciutolo, pretende una visita seduta stante on the road, poi entrato nel palazzo la portinaia lo informa, turbandolo non poco, che una signora (in realtà la sua amante) ha chiesto incessantemente di lui. Guadagnata la soglia di casa, Michel si precipita nello studio per ascoltare il disco, ma immediatamente viene interrotto dalla moglie Nathalie (Carole Bouquet) che con fare al contempo svagato e compito chiede di parlargli. Michel si libera abilmente della donna e torna al giradischi, ma da quel momento viene travolto da una serie di personaggi ed eventi che rimandano sine die l’immersione nella jazz session portandolo sull’orlo del collasso psicologico: maldestri operai polacchi (o sedicenti tali, in realtà sono portoghesi) ingaggiati in nero dalla moglie gli stanno distruggendo l’appartamento, il figlio Sébastien (Sébastien Castro) nullafacente e velleitario terzomondista gli comunica che intende dare asilo a una numerosa famiglia di profughi filippini, la domestica (Rossy De Palma) si ingegna a fare più rumore possibile, il vicino (Stéphane De Groodt) che sta organizzando chez lui una assurda “Festa del buon vicinato” suona alla porta e si lamenta perché il suo soffitto gocciola (gli operai a casa di Michel infatti fanno saltare le tubature come tappi di champagne), l’amante Elsa (Valérie Bonneton) si ripresenta e gli dice di voler confessare tutto a Nathalie (di cui ovviamente è la migliore amica).
Ancora: torna il vicino che, causa inagibilità del suo appartamento per l’acqua che ormai scende a dirotto, trasferisce d’emblée la festa da Michel che si ritrova circondato da frizzi e lazzi. Ancora: la moglie gli confessa di averlo tradito con il suo migliore amico Pierre (Christian Charmetant) che, spiantato come al solito, sta per arrivare per chiedergli un prestito. Non solo: gli spiega che il padre di Sébastien è proprio Pierre. In un crescendo rossiniano di situazioni, motti e mottetti la pellicola corre al suo epilogo: uno dopo l’altro tutti gli indesiderati ospiti se ne vanno, compresi moglie e figlio, lasciando Michel solo. Finalmente può ascoltare l’agognata musica, ma vittima di un colpo della strega cade a terra. Alza lo sguardo dolorante e si accorge che, unica rimasta, una graziosa bambina (della famiglia dei profughi) lo guarda perplessa e tenera. Allora Michel si ricorda che il disco che ha tentato inutilmente di ascoltare era amatissimo dal vecchio padre, che lui ha sistemato in un ospizio di lusso e di cui si è poi disinteressato. Quindi si rimette faticosamente in piedi e va dal padre che, ormai poco lucido, a stento lo riconosce. Mette sul giradischi il vinile per ascoltarlo insieme con lui, come faceva da ragazzo. L’aggeggio si inceppa e l’incisione è ormai rovinata, ma non importa: Michel stringe la mano del suo papà e sorride felice. Fin. Stacco netto sui titoli di coda, alla Woody Allen.
Patrice Leconte, già collaboratore dei Cahiers du Cinéma, è un regista prolifico, abile, furbo, ma non grande. Pessimista sorridente, come si è definito lui stesso, autore del celebrato (e sopravvalutato) Il marito della parrucchiera che lanciò Anna Galiena, con Tutti pazzi in casa mia firma un’opera gradevole, a tratti schiettamente divertente, ma di invincibile esilità, tratta da una pièce di Florian Zeller (portata sul palcoscenico da Fabrice Luchini). La trama infatti è pressoché inesistente, supportata unicamente dalla performance attoriale (che è di livello): non bastano dialoghi frizzanti e circostanze divertenti (anche se poco originali) per giustificarne la trasposizione filmica. L’impianto è prettamente teatrale e il regista si perde in movimenti di macchina incerti e quasi sciatti, limitandosi ad assecondare pedissequamente il mestiere degli interpreti, senza aggiungere alcuna valenza soggettiva e autoriale alla resa d’insieme.
Potremmo dire che l’intero film si regge sulle esperte spalle di Christian Clavier, attore straordinario, carismatico, multitasking, dal vitalismo espressionistico debordante ma non volgare (in Italia noto soprattutto e purtroppo per l’orrida serie di Asterix nella quale si è buttato via anche il sommo Depardieu, meno brutto il ciclo de I Visitatori con Jean Reno), che con la sua recitazione via via sempre più esasperata ai limiti del nevrotico omaggia chiaramente l’indimenticabile Louis de Funès. Il suo Michel è talmente egoista e cialtrone da risultare al dunque simpaticissimo (ma egoisti e cialtroni sono tutti i personaggi, però meno simpatici), perso nel suo desiderio assoluto e quasi autistico di ascoltare Me, Myself and I (a proposito di egotismo) del fittizio Neil Youart, mentre tutto il suo mondo gli frana sotto i piedi. Ma si riscatta nel finale, delicato e quasi commovente.
Carole Bouquet è algida come deve essere Carole Bouquet, ma qui realizza una sfumatura ironica nella sua assenza espressiva che è lodevole. Bravi anche Stéphane De Groodt, spiazzante e comico nella sua vacuità, e Rossy De Palma, sempre caratterista di tutto rispetto. Al minimo sindacale la fotografia e la colonna sonora.
Tutti pazzi in casa mia è un lungometraggio che complessivamente si guarda volentieri, puro scacciapensieri, ma non ha profondità e non lascia traccia nello spettatore.