Osservatorio macroeconomico (19/03/2014)

Prendere confidenza con la volatilità

Nel corso delle ultime settimane si è assistito ad una significativa volatilità dei mercati, che pur spaventando molti investitori, richiede che comunque in un modo o nell’altro sia maggiormente presa in considerazione, ed accettazione, all’interno dei processi decisionali di investimento. I mercati, e non solo quelli emergenti, hanno generalmente evidenziato una volatilità crescente negli ultimi due decenni, ciò essenzialmente a causa dell’accresciuto capitale finanziario proveniente sia da investitori istituzionali di tipo tradizionale che da fondi hedge e trader ad alta frequenza. Da un punto di vista tattico, ovviamente i movimenti di market sell-off risultano come potenziali opportunità di acquisto, ma ciò solamente in settori, industrie e singoli titoli in cui naturalmente si abbia una valutazione fondamentale (strategica o di medio termine) tale per cui il deprezzamento possa effettivamente essere giudicato sulla base di un criterio solido, ed in un certo qual modo esterno al movimento di prezzo stesso.

Per gli operatori con un orizzonte temporale sufficientemente breve, tali repentini e violenti sell-off possono risultare molto pericolosi, finendo così per amplificare anche in prospettiva le dinamiche di “risk-on/risk-off” dei mercati – e di quelli emergenti in modo particolare. È come conseguenza di ciò gli investitori con ampi orizzonti temporali saranno indotti a riconoscere la necessità di avere processi decisionali maggiormente “robusti” e disciplinati al riguardo. In relazione a questo consideriamo come la prospettiva di medio/lungo termine del “contesto” economico emergente non appaia mutata significativamente negli ultimi due trimestri, e ciò non lo sarà in particolare fintanto che rimarranno presenti questi fattori di fondo: il tasso di crescita delle economie emergenti continuerà in generale ad essere tre volte quello delle economie sviluppate; finchè le riserve valutarie saranno consistenti (maggiori di quelle dei paesi avanzati) e finché i tassi di indebitamento complessivo (privato e/o pubblico) in rapporto al prodotto si manterranno contenuti. Naturalmente parlare di economie emergenti richiede i dovuti distinguo, ma tali criteri paiono comunque sufficienti per considerazioni di lungo termine anche sommando sic et simpliciter tali economie in un unica entità consolidata.

Considerazioni su Cina ed Argentina

Le principali economie che hanno innescato volatilità nei mercati emergenti sono state, come noto, la Cina e l’Argentina, per cui di seguito alcune specifiche considerazioni.

Diversi timori sono emersi di recente – per la verità ormai da più di un paio d’anni – riguardo alla riduzione del tasso di espansione dell’economia cinese, accentuati dai dati degli ultimi due trimestri. Per come la vedo io al riguardo, la continua ascesa della critica nei confronti del governo cinese ha avuto buon gioco in presenza della decelerazione della crescita economica, che ha finito così per essere polemicamente amplificata. Nei fatti l’economia cinese sta attualmente crescendo ad un ritmo inequivocabilmente rapido. Se la crescita cinese quest’anno risulterà nel range tra il sei e l’otto percento, ciò sarà da un punto di vista globale, un notevole elemento per un’economia delle dimensioni all’incirca di quella statunitense o giapponese. Via via che il sistema economico cinese cresce e si trasforma non ci si può più attendere i tassi di crescita del passato. Ci sarà una decelerazione, ma è del tutto normale. In termini di valore, più elevate sono le dimensioni dell’attività economica, e più elevato risulta l’impatto della sua crescita sull’intero sistema economico mondiale. Infine, il governo cinese si sta coerentemente imbarcando in un significativo sumero di importanti riforme politico-economiche intese a favorire una crescita della domanda interna e per questa via una più sostenibile e bilanciata crescita economica di lungo termine.

Riguardo all’Argentina, allo stato attuale il governo di Buenos Aires ha riconosciuto l’evidente problema di competitività economica con l’attuale cambio ufficiale fisso del nuevo Peso e, dopo aver perso 20 miliardi di USD di riserve ufficiali ha deciso di svalutare e allentare le restrizioni alla conversione in dollari da quanto sono state messe in piedi. L’assestamento del corso ARS/USD, anche se violento (da 6.8 a 8.0), non sembra comunque essersi concluso e ancora in presenza di tassi d’interesse attorno al 20% sulla valuta argentina lo spread tra il mercato ufficiale e quello reale parallelo rimane ancora ampio.

A di là delle consistenti dinamiche finanziarie verificatesi, rimangono diverse questioni irrisolte nell’attuale situazione argentina. La prima riguarda i rischi legati all’implementazione della politica di svalutazione. Se è evidente che nell’attuale situazione la svalutazione appaia alquanto necessaria, sembra altresì problematico il modo in cui il governo la sta perseguendo. Ragionevolmente i policymakers argentini dovrebbero tendere ad abolire le restrizioni sui flussi di capitale al fine di incoraggiare nel prossimo futuro un afflusso di USD. Sembra infatti troppo rischioso il sostegno dell’attuale fixing o quantomeno troppo oneroso in termini di erosione di riserve valutarie. In sostanza è probabile, a mio avviso, che in prospettiva si renda necessario un maggior intervento del mercato per ottenere un più sostenibile livello del tasso di cambio ufficiale ARS/USD. In tale processo sarebbe anche richiesto che il governo consenta al tasso d’interesse sul nuovo Peso di salire, momentaneamente anche considerevolmente, in modo così da minimizzare le perdite di riserve.

Nonostante le dichiarazioni governative sui timori legati all’insostenibilità dell’elevato differenziale osservato fra il cambio ufficiale e il parallelo, le autorità sembrano ancora far nulla di concreto per affrontare le cause che hanno portato l’economia argentina in questa situazione. Qui non ci si può non riferire all’annoso e importante punto che riguarda l’aggiustamento fiscale. Il governo argentino ha imposto negli ultimi due anni l’emissione di nuova base monetaria (circa per il 35%) al fine di finanziare la spesa pubblica. Il consensus stima che il deficit pubblico, in rapporto al prodotto interno, per quest’anno sarà intorno al 5%. Sono pertanto urgenti misure di controllo della spesa con un piano di aggiustamento della stessa a medio termine. Solo a questo punto sarà possibile combinarla con una nuova restrizione sui movimenti di capitale effettiva e perdurante.

Maurizio Binelli

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