A Pietro che al cielo preferiva la terra

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A Pietro che al cielo preferiva la terra

«Mennea vola via», titola la “Gazzetta dello Sport”, ma è un titolo sbagliato, perché il talento di Mennea era correre e nella corsa alla fase di volo segue quella d’appoggio. Non le prendi quattro lauree se non hai i piedi per terra.

A toccare il terreno per primo è il metatarso, la parte esterna, seguono poi tre fasi: ammortizzazione, sostegno e spinta, in cui l’arto portante è completamente esteso.

Il talento di questo ragazzo barlettano del ’52 è stato correre, con quel busto ritto e corto dallo sterno prominente che sembrava da uccello e invece era da dinosauro a sangue caldo, o che era dell’uno e dell’altro, forse il cinto pettorale di un Archaeopteryx o del prototirannosauro piumato cinese dello Yixian, nove metri di bestia sbuffante che ti piglierà tra un istante, come accadde di pensare nella finale olimpica dei 200 di Mosca ’80 al britannico Allan Wipper Wells, da Edimburgo, un marcantonio che di paura nella vita deve averne avuta poca, se non lì, sulla pista: fortuna che fu roba di secondi.

Paura niente invece, l’anno prima, per i battuti della finale dei 200 alle Universiadi di Città del Messico, perché si sapeva che lì Pietro non avrebbe sbranato nessuno, che era a caccia del tempo: 19″72, primato mondiale, battuto soltanto 17 anni dopo da Michael Johnson ad Atlanta, con un 19″32 che per farlo dovette mangiarsi i secondi 100 metri in 9″20. Non ci cascate, non è cosa da uomini, non riuscì nemmeno a quell’antilocapra di Usain Bolt ai Mondiali del 2009 di Berlino.

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Nelle gare veloci puoi anche respirare con frequenza estrema, ma l’ossigenazione è comunque carente, è come se fossi immerso nel mare, quello che vedi dalla Litoranea di Barletta mentre cerchi di battere un’Alfa 1750 sui 50 metri e quando sei arrivato ti giri e non vedi più il mare ma quel bisonte d’acciaio rosso a quattro cilindri, dietro.

Ti manca il fiato, sei oltre la soglia anaerobica, oltre l’80 per cento della frequenza cardiaca massima, è come se grossi pesci argentati ti guardassero come una cosa strana prima di conficcarti cento denti nel petto a suggerti quel po’ di sangue ossigenato che ti è rimasto ancora.

E all’arrivo riemergi, e se sei un uomo, non un pesce da branco, un uomo, e se la tua razza è tenuta in povertà e discriminata, allora può capitarti in una notte di mezzo ottobre di salire sul podio, toglierti le scarpe e levare al cielo un pugno nero guantato di nero. A capo chino, ascoltando l’inno della tua nazione che discrimina e opprime i tuoi fratelli. Perché quell’inno, finché la tua nazione discriminerà ed opprimerà i tuoi fratelli, non viene dal cielo, il suo suono è fasullo.

Accadde a Tommie Smith in una notte di mezzo ottobre del ’68, aveva 24 anni. Lo chiamavano il Jet, troppo veloce per giocare a football, il primo a correre i 200 metri sotto i 20″. Un altro ragazzo di otto anni più giovane lo guardava in un teleschermo da Barletta. E pensava: «Io ti divento uguale». Ma è diventato più veloce ancora. Un metro avanti gli sarebbe arrivato a Città del Messico.

Per il resto, caro Pietro, è vero. Gli sei diventato uguale. Stessa dignità.

Ciao campione.

Edoardo Varini

(24/03/2013)


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