Il pangolino e il pellicano

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Il pangolino e il pellicano

Con la notizia dell’ennesimo blitz delle fiamme gialle che vede coinvolti i consueti “noti professionisti” della capitale, ci giunge quella del precipitare del nostro bel paese al 72esimo posto nella classifica della corruzione, come la Tunisia.

Lo sapeva comunque già Petrarca che il parlar delle «piaghe mortali» del bell’italico corpo «è indarno», nondimeno abbiamo voce, e abbiamo occhi. Occhi anche per vedere il bel quadro che una vera artista, un’amica, la pittrice Madeline von Foerster, mi segnala questa mattina di avere esposto a Miami, per la precisione presso la galleria The Art Miami Pavillon. Un dipinto di circa un metro per uno, che è in realtà senza titolo ma per indicarlo – come per solito avviene con i dipinti che titolo non hanno – s’impiega il nome del suo principale soggetto: un pangolino.

Che spilla sangue, esattamente come gli italiani, che dovranno versare entro il 17 dicembre 5 miliardi in di IMU in più rispetto a quanto avrebbero dovuto in base alle aliquote nazionali impiegate per l’acconto. Che spilla sangue come il pellicano dell’araldica e dell’iconografia cristiana, l’uccello che si credeva amasse i propri figli al punto da lacerarsi il torace per sfamarli, esattamente come il Dio incarnato, Cristo, che nutre di vita spirituale il mondo con il sangue spillante dal proprio costato.

Il pellicano, in realtà, si limita ad estrarre i pesciolini dalla sacca che ha sotto la gola, come forse Dio, in verità, si limitò a simulare la morte di suo figlio incarnato. Che un Dio possa farsi uomo e morire non fu concetto facile da assimilare: allorché comparve, lo chiamarono “unione ipostatica” e ci volle un concilio ad imporla, quello di Calcedonia, nel 451. E ci volle tutta la protervia del doctor Incarnationis, il patriarca di Alessandria Cirillo, che pur di averla vinta sul rivale teologo Nestorio non esitò a ricorrere all’intimidazione più bieca. Ma non bastò, e allora Cirillo andò per le spicce: lo chiamò “nuovo Giuda” e lo fece deporre. Che l’interpretazione metaforica possa avere più pregnanza della letterale è ipotesi fra i più, oggi come allora, negletta. 

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Venendo al profano, alle cose di borsa, tempo fa c’era chi chiamava “nuovo Giuda” chi osava sollevare obiezioni circa l’eventualità che uno smartphone – per smart che fosse – potesse sospingere il titolo Apple a 1.000 dollari. Ora invece, ora che l’azienda della mela ha perso in due mesi il pil del Kuwait (117 miliardi di dollari), gli analisti “scoprono” che nel settore tech è difficile mantenere a lungo la leadership. E soprattutto, mi permetto di aggiungere, è molto difficile limitandosi ad apportare migliorie a un prodotto.

Se per avere o mantenere il successo occorre restare affamati e folli, come disse Steve Jobs ai laureandi di Satnford, con Tim Cook alla guida, l’uomo da 378 milioni di dollari l’anno, Apple non andrà lontano. È uno degli uomini più metodici e appagati del pianeta. Fitness, escursioni, bicicletta, palestra, conference call domenica sera per ostentare stakanovismo, cose così. Cose orribilmente standard. Io no so se abbia pangolini figli che gli salgono sulla groppa a cercare pane e protezione, non so se sia padre. So che se li avesse non dovrebbe dissanguarsi per nutrirli. Guardate la ciotola davanti al tabernacolo. Contiene una zuppa inguardabile. Inservibile: i pangolini non sono cannibali. Forse gli uomini, tanti uomini, sì.

A presto. 

Edoardo Varini

(5/12/2012)

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