Il trionfo di Erdogan in Turchia: la stabilità a suon di bombe voluta dall’Europa
Alle elezioni di ieri in Turchia ha trionfato l’Adalet ve Kalkınma Partisi, in acronimo AKP, in italiano Partito per la Giustizia e lo Sviluppo. Ha trionfato con il 49,4 per cento dei voti, riconquistando con 316 seggi la maggioranza assoluta in Parlamento. È la formazione politica fondata dell’attuale presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan e dell’attuale primo ministro, Ahmet Davutoğlu, nominato tale per la fermezza dell’appoggio fornito ad Erdogan a fine maggio del 2013, il tempo della rivolta di Piazza Taksim, il tempo dello sgombero di Gezi Park a manganellate, a getti di idranti, a lacrimogeni, mentre la televisione trasmetteva le gambe delle concorrenti di Miss Turchia ed un imperdibile documentario sui pinguini.
Il sultano, l’uomo forte Erdogan, l’ubiquo inquilino del Palazzo di 1200 stanze e dalla benedizione della Merkel è ora saldamente alla guida di un partito nato nel 2001 come islamico moderato e divenuto ora un’aggregazione di conservatori nazionalisti e riformisti islamici, all’ombra della continuamente evocata e celebrata e sbandierata tradizione ottomana. La reintroduzione del reato di blasfemia accanto alla spregiudicatezza affaristica d’Occidente, questo è l’AKP. Un Occidente che lo sostiene perché si tenga i profughi siriani, incurante del fatto che è lui stesso a produrne bombardando in Siria – già che si fa la guerra, perché no? – i ribelli curdi combattenti contro lo Stato Islamico, e cioè a dire il Partîya Karkerén Kurdîstan, in acronimo PKK e in italiano Partito dei lavoratori del Kurdistan.
E puntuale è arrivato il voto dei turchi per la sicurezza. «Le violenze, le minaccie e le carneficine non possono coesistere con la democrazia ed il rispetto della legge», dice il sultano. Ed ora vedremo se ieri ha vinto la democrazia o una cosa diversa. Ma lo possiamo aggiungere che solitamente non è con il trionfo degli “uomini forti” che vince la prima?
A presto.
Edoardo Varini
(02/10/2015)