La Corte dei conti e l’affabulazione della crescita «robusta e duratura». Cui seguirà la moltiplicazione dei pani e dei pesci
Questa cosa se non riguardasse le nostre vite sarebbe comica. Solitamente le premesse introducono e descrivono e supportano lo svolgimento e le conclusioni di uno scritto, di un documento, di una relazione.
Ma quando si tratta della Corte dei conti, no. Leggendo il suo Rapporto 2017 apprendiamo nella premesse che: «Finalmente si è usciti da una fase di recessione protrattasi per otto anni. […] I primi segnali dell’anno in corso sono molto incoraggianti e la nostra economia è in una fase di transizione verso una crescita più robusta e duratura». Proprio così: «Una crescita più robusta e duratura». Senza vergogna.
Prosegui nella lettura e scopri che il carico fiscale complessivo (total tax rate) per un’impresa italiana di medie dimensioni è del 64,8%, superiore del 25% ad un’omologa impresa dell’area europea. E allora ti chiedi: ma di che cosa parlava la premessa? Ma come si fa ad essere diretti verso una robusta e duratura crescita con questo gravame?
E allora leggi ancora, perché magari potresti trovare un chiarimento. E invece trovi una confutazione: il nostro cuneo fiscale (cioè il delta tra il costo del lavoro a carico dell’imprenditore e lo stipendio netto del lavoratore) è superiore di 10 punti percentuali al dato medio del resto d’Europa: parliamo del 49% contro il 39%.
A seguire la Corte dei conti scopre che il debito pubblico nostrano è il più alto del Vecchio Continente, inferiore solo a quello della Grecia, ovviamente parlando in termini percentuali: oggi è pari al 132% del Pil, a fronte di un debito teutonico del 78,4%. Lo scorso anno, il debito, ha superato i 2.200 miliardi.
Ora, si sente ripetere spesso la tiritera che a far esplodere il debito pubblico sia stata un’esplosione della spesa: è falso. E non è che a ripeterlo diventa vero.
Nel 1980 il debito pubblico corrispondeva al 57,7% del Pil, nel 1994 raggiunse quei livelli spaventosi che oggi dobbiamo affrontare, per l’esattezza arrivò al 124,3%. Andiamo a vedere se nella spesa pubblica si registrò un’analoga impennata? Non ve ne fu nessuna. Nel 1980 la spesa era pari al 40,8% del Pil e nel 1994 al 42,9: nemmeno 3 punti percentuali in più. Ricordiamo che negli stessi anni il debito pubblico raddopiò.
E allora? A allora vorrei tanto che la si smettesse di attaccare salari e welfare con queste panzane. Con ogni panzana. Non è più il tempo delle fesserie, ammesso che lo sia mai stato.
La situazione del debito pubblico divenne insostenibile a seguito del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, allorché la prima smise di intervenire nell’acquisto dei titoli di Stato. Venne così a mancare uno dei maggiori compratori di titoli di stato, cioè del debito nazionale, e che cosa succede quando diminuisce la domanda? Che aumentano i tassi, perché altrimenti i compratori non arrivano.
Nel 1994 il divario tra i tassi di interesse dei titoli italiani e della UE giunse al 9%: pari al 13% il primo ed al 4% il secondo. Nel ’92, senza la difesa della Banca d’Italia, giunsero gli attacchi speculativi alla lira che costrinsero l’Italia ad uscire dal sistema monetario europeo ed a svalutare.
Riassumendo, ben vengano la riduzione e la razionalizzazione della spesa pubblica, ma la si smetta di additare il welfare ed i salari come la causa dell’aumento del debito pubblico.
Se ci sarà una ripresa non sarà perché gli insegnanti o i poliziotti o gli impiegati statali prenderanno 800 euro al mese e non si spenderà nulla per sostenere il disagio economico o la malattia, oppure la vecchiaia. Sarà perché verrà ridotta l’imposizione fiscale sul lavoro e si appronteranno piani di sviluppo economico solidi e credibili.
Sono cose indissolubili. Oggi in Italia non si può fare impresa. Non si può. Lo sappiamo tutti. Vogliamo piantarla di raccontare che è possibile, santi così le cose, una ripresa? Lo dico in primo luogo ai magistrati contabili della Corte dei conti: non scrivete che assisteremo a un miracolo, che lo stiamo rendendo possibile. Siate istituzionali e non governativi, se vi è riesce.
A presto.
Edoardo Varini
(05/04/2017)