La crisi siriana: arrivano i nostri?
Arrivano i nostri, a punire lo sconvolgimento della coscienza del mondo, secondo le parole di John Kerry, segretario di stato della più grande potenza bellica del mondo. Una potenza bellica è tale non solo perché è la più preparata a fare la guerra, ma perché la guerra esiste.
Il suo presidente cinque giorni fa diceva che: «Se gli Stati Uniti intervenissero e attaccassero un altro Paese senza un mandato delle Nazioni Unite e senza chiare prove che possano essere presentate, allora sorgerebbero questioni in termini di diritto internazionale».
Il mandato dell’Onu a oggi non c’è, nondimeno pare che già sia stato deciso l’attacco: da domani sera, durerà dalle 48 alle 72 ore. Le prove dell’uso di armi chimiche nel massacro di Ghouta – come rivelerà senz’altro inoppugnabilmente un rapporto dell’intelligence stellestrisce – verrano fornite al mondo contestualmente all’esplosione di missili alti più di due piani, i Tomahawk, che dopo il primo punto di navigazione sopraelevato iniziano a sterzare più stretto fino a trovare il sangue.
Uss Mahan, Uss Barry, Uss Gravely, Uss Ramage, le quattro unità navali in zona cariche di 24 missili ciascuna. Solo loro, i missili, fanno 180 milioni di dollari. Se poi non bastasse arriveranno i grandi bombardieri strategici B2 dalle geometrie sfuggenti, dalle vernici radar assorbenti, anche se più che i radar questi moderni pterodattili di carbonio e grafite assorbono dollari. Un miliardo di dollari ciascuno: dovremo pur usarli, qualche volta, no?
L’obiettivo dell’attacco sarà punire i reparti responsabili del massacro, in particolare la 155esima Brigata della IV Divisione guidata da Maher Assad, non distruggere gli impianti di ricerca siriani sulle armi chimiche, non il centro di produzione di Al Safir, per non creare nubi tossiche nocive alla popolazione. In altre parole, le armi chimiche continueranno ad essere prodotte.
Si dice che tutto avverrà per forza di cose entro tre giorni, perché poi Obama dovrà partire e non potrà seguire il “blitz”.
La realtà, come tutto capiamo, è che si vorrebbe evitare al presidente americano l’imbarazzo di sedersi al tavolo del G20 in programma il 5 e 6 settembre a San Pietroburgo senza aver risolto il duro contrasto con la Russia sulla crisi siriana: il portavoce del ministro degli esteri russo – ma è solo un esempio fra i tanti – ha detto ieri che «I tentativi di bypassare il consiglio di Sicurezza dell’Onu, ancora una volta per creare artificiali ed infondate scuse per un intervento militare nella regione, portano solo nuove sofferenze in Siria e conseguenze catastrofiche per gli altri paesi del Medioriente e del Nordafrica».
Frattanto le borse fingono timore e spingono il petrolio oltre i 110 dollari, e dopo il “blitz” – se tale sarà – festeggeranno per certo il ritrovato onore dell’Occidente, incuranti degli imminenti downgrade del rating dei paesi europei più indebitati, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Cipro, il cui debito sarà tra poco “spazzatura”.
Segnali di ripresa, al di là di sospettissimi strombazzamenti governativi, non ve ne sono. Chiedetelo agli analisti di Moody’s, che si attendono una crescita dei Piigs a livelli pre-crisi solo nel 2017, che poi significa – dal momento che previsioni economiche di così lungo termine sono solo un trastullo – che non se l’attendono mai.
A presto.
Edoardo Varini
(28/08/2013)