Lo squalo di Befera, come quello di Hirst

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Lo squalo di Befera, come quello di Hirst

La flessuosa signora dai capelli di mogano e dalle gambe a compasso che disegnano la circonferenza del mondo rotea l’ombrellino all’angolo sud del marciapiede del metrò e riversa la testa quel tanto che basta per far da ipotenusa alla squadra tra la sua spalla sinistra e la notte. O perlomeno l’ombra da cui tra un minuto e cinquanta – annuncia la segnaletica – sbucherà il treno della linea verde che porta in diadema la scritta “Gessate”.

Fosse un operaio, e non un treno, di questi tempi invece della scritta recherebbe in fronte la “Tavola delle possibilità liquide” di Giovanni Anceschi del ’59, con quel liquido rosso che in televisione nemmeno sembra sangue ma dev’esserlo, perché non sono molti i liquidi rossi che fuoriescono da una faccia pestata.

Per solito pestata da un manganello della polizia sferrato a difesa di qualche luogo del potere. Ieri quel luogo è stato la prefettura di Genova e l’involontario e probabilmente inconsapevole campione di tal impreveduto revival d’arte cinetica è stato un lavoratore dello stabilimento di Cornegliano dell’Ilva.

E dove non arrivano i manganelli arrivano i tornado, che li vanno a prendere anche nella cabine delle gru, i manovali, e li sbatacchiano fin nei fondali melmosi del mare, che se poi li trovano sono talmente malmessi che era meglio nemmeno averli cercati. Che è come se li avesse sbrandellati un grosso squalo.

È successo ieri mattina, sempre all’Ilva, ma questa volta a Taranto, al gruista Francesco Zaccaria, nemmeno trentenne. Morto prima di Cristo, su diversa croce, con più sbrigativo calvario. Propongo un bel confronto all’americana tra un disoccupato e il diavolo – con successivo fact-checking – alla terza settimana del mese, giacché dipoi sono indistinguibili.

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Seduti in metrò, roteare l’ombrellino non vien bene, ma fingere d’assonnarsi certo sì, e così pure riaprire gli occhi come ci si sporge dal balcone: per vedere esattamente come prima ma provocando nel riguardante un equilibrio instabile. Il riguardante in questo caso è altri da sé, è un suonator di fisarmonica da far vibrare anche i binari di jazz manouche. E il suo compagno chitarrista, che mi ricorda il caro amico che ier l’altro lungo il fiume ebbe a dirmi: «M’è successa una cosa…». «Che cosa?». «M’è arrivata una cartella dall’Agenzia delle entrate. Devo pagare 14.000 euro. Volevo prendere la macchina…».

Parlo di un artigiano, di uno che il pane se lo sgobba da che lo conosco, e sono quasi trent’anni. E rammento che il fisco, per essere giusto, dovrebbe tassare ad aliquote progressive, lo dice l’articolo 53 della Costituzione – «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» – e invece il 77 per cento delle entrate deriva da percentuali fisse, che eguagliano poveri e ricchi, eguagliano tutti, come la morte.

Il tailleur amaranto della signora è un Domenico Gnoli, i suonatori sono un Chagall.

Non solo il mio amico ma anche Google deve qualcosa al fisco: 96 milioni di euro. La differenza è che Google, imputando i proventi alla casa madre d’Irlanda, non li pagherà mai. Che artista sarà ‘sta roba qui? Secondo me una patacca: un Damien Hirst. E questo mostro che sbrana soltanto i più deboli è lo squalo di Hirst. O di Befera, indistinguibili. Come il disoccupato e il diavolo alla terza settimana del mese.

A presto. 

Edoardo Varini

(30/11/2012)

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