«Teresa ha gli occhi secchi, guarda verso il mare»
«Teresa parla poco, ha labbra screpolate / mi indica un amore perso a Rimini d’estate / Lei dice bruciato in piazza dalla Santa Inquisizione, forse perduto a Cuba nella rivoluzione / o nel porto di New York / nella caccia alle streghe / oppure in nessun posto / ma nessuno le crede».
Quando vai a dire che avevi un amore grande e l’hai perduto è proprio così, nessuno ti crede. Ma tu sai che l’avevi e che era più grande di tutto. E che poi l’hai perduto.
Quando De André scriveva Rimini avevo dodici anni e se mi avessero chiesto da che parte stavo avrei risposto che stavo a sinistra – da quel ragazzino che ero, certo, ma poi non ho cambiato – e lo avrei detto naturalmente, nella convinzione che la nobiltà sia sempre stare con gli umili. Per una ragione semplice, perché è più difficile, e se credi davvero che siano le asperità a condurti alle stelle, basta quello. È una cosa istintiva: o la capisci o non la capisci. Non è questione di accampare un’indimostrata superiorità morale, di filosofare che l’eliminazione della diseguaglianza sia di per sé un bene.
Certo che per me lo è ma la cosa non è dimostrabile. Ci sarà sempre un pensatore di destra o un teologo conservatore, un ideologo fondamentalista o un filosofo reazionario, un mitografo che ti viene a dire che è giusto che i migliori comandino e gli altri obbediscano, che il sapere ha soltanto le forme archetipiche di una tradizione interiorizzata fino al midollo, che all’incirca le cose saranno sempre come sono state, che è poi anche come devono stare.
Ma c’è qualcosa in me che si ribella ogniqualvolta sento dichiarare o anche semplicemente ammettere la superiorità di un essere umano su un altro. Ho quotidiana prova che effettivamente delle differenze esistono, e posso tranquillamente convenire che nella mia ribellione ci sia qualcosa di irragionevole, di utopico, se non di idiota, di ottuso. Ma è inalienabile parte di me, anche se non ne so la ragione.
Spero di non aver dato l’impressione di vantarmene perché non me ne vanto affatto ed ho un rispetto della vera cultura di destra che vi garantisco autentico e sincero.
Ma io non sono di destra, sono di sinistra.
Dal minuscolo osservatorio che sono i miei occhi e la mia mente vorrei però dirvi due cose: due sole cose. A destra avevamo e abbiamo la tradizione; a sinistra avevamo la speranza. Non l’abbiamo più. Se n’è andata con l’idea della sostenibilità economica, ecologica, antropologica del futuro. Ci muoviamo, combattiamo nell’ombra, come Leonida alle Termopili. È tempo di guadagnarsi l’anima, non esistono più oliati ascensori per le stelle. E invece i politici ci sono tutti sopra, sospesi nel perfetto vuoto.
Oggi a imperare è la destra. Sto cercando di dirlo pianamente, come fosse l’esposizione di un teorema logico, in cui a contare è solamente il grado di verità.
La restaurazione mostrerà tra non molto la sua matrice antidemocratica. Le diseguaglianze aumentano e sono così tante che perfino nominarle è diventato démodé.
Ma non si può vivere senza un’idea di futuro e l’idea di futuro è in potenza non in atto e non può avere forma. È il divenire. È l’innumere e ingovernabile mondo delle possibili cose. Il futuro non può essere di destra, anche se non potrei certo dire che la dominante incultura odierna di sedicente sinistra lo possieda o lo informi.
E così presto o tardi anche per noi e non soltanto per Teresa, la figlia di droghieri della canzone di De André, tornerà ad essere normale guardare verso il mare. Chiude Fabrizio in antifrasi: «Ma voi che siete a Rimini, tra i gelati e le bandiere, non fate più scommesse sulla figlia del droghiere». Come se fosse possibile, senza morire.
A presto.
Edoardo Varini
(06/08/2013)