“I grandi investitori” di Glen Arnold: value investing vs growth investing
Noi tutti sappiamo che l’investimento, rispetto alla speculazione, ha un respiro più ampio, certamente dal punto di vista temporale e quasi sempre anche dal punto di vista monetario. Molti di noi sono disposti a investire grosse cifre ma non a “puntare” grosse cifre su questa o quella operazione di borsa speculativa, il famoso “trade”, che poi vuole dire con orizzonte temporale breve o brevissimo, alto rischio e un altrettanto grande guadagno potenziale. Ecco la parola chiave: il rischio. Per l’esattezza il concetto chiave è il controllo del rischio.
Quello che si chiama value investing altro non è che la migliore maniera individuata da uno dei più grandi investitori di sempre, Benjamin Graham – che non a caso apre la carrellata dei grandi investitori compresi nel libro di Arnold – per ottenere il miglior rapporto rischio/rendimento. Secondo Graham questa maniera consiste nell’acquistare titoli azionari al di sotto del loro valore intrinseco. Lo stesso Graham chiamava lo sconto rispetto al prezzo di mercato “margine di sicurezza”. Ma che cos’è il valore intrinseco? Be’, è abbastanza intuitivo: è il valore reale dell’azienda di cui il titolo azionario è parziale espressione. È quota parte. La domanda vera è: come si calcola questo valore intrinseco, questo valore effettivo, fattuale dell’azienda? Lo si calcola soppesando gli asset, gli utili, i dividendi e gli utili potenziali. Esistono molte formule per farlo, a volte complesse, ma nella sostanza, per dirla con le parole dello stesso Graham, il valore, quando c’è, dovrebbe: «Gridarci in faccia la sua presenza».
Sembra un’espressione ambigua, elusiva, ma vi assicuro che a volte questa evenienza accade.
Un esempio eclatante fu quello che capitò a Warren Buffett, il più noto e probabilmente capace degli allievi di Graham. Una curiosità: Graham, malgrado Buffett fosse stato il suo studente migliore di sempre, non lo volle mai alle proprie dipendenze e il futuro “oracolo di Omaha”, con un’ironia che definirei incantevole, disse che non sarebbe potuta andare che così, dato che il suo maestro puntava, per l’appunto, sul valore.
Dicevamo dell’investimento sul valore intrinseco capitato a Buffett, uno dei tanti. Nel 1966 la Disney quotava 90 milioni di dollari. Un giorno Buffett venne a sapere che una sola attrazione di Disneyland, quella dei Pirati dei Caraibi, era costata 17 milioni di dollari. Non solo Buffett, chiunque di noi avrebbe immediatamente capito che l’azienda, se una sua sola attrazione veniva valutata un quinto del suo complesso, era terribilmente sottovalutata. La differenza tra noi e Buffett è che lui acquistò sulla base di questa semplice riflessione una consistente partecipazione in Disney, che rivendette l’anno dopo con un guadagno del 55 per cento. In effetti in questo caso si può dire che effettivamente il valore stava «gridando in faccia la sua presenza».
L’altro metodo di cui si parla in questo libro è quello del growth investing, vale a dire l’investimento in aziende di così alta qualità da poter garantire una vigorosa crescita in un futuro più o meno immediato. Si identifica dunque il miglior settore e poi al suo interno l’azienda con le migliori possibilità di sviluppo, che non è detto debbano già essersi manifestate: si parla a volte di pure potenzialità. Per tal ragione è il tipo di investimento più difficile. Il campione di questa metodologia operativa è Philip Fisher, anch’egli presente nel libro che sono qui a presentare. Fisher puntava infatti tutto sulla conoscenza e riteneva che l’investimento fosse materia da professionisti, proprio in ragione della complessità di analisi che essa presuppone. I titoli growth – tipico è il caso dei titoli hi-tech – non sono a sconto, il loro prezzo, proprio in ragione delle loro potenzialità, è elevato.
I titoli growth sono sostanzialmente scorrelati dal ciclo economico, dunque teoricamente quando non c’è crescita sarebbero da preferire ai titoli value. Questa è per esempio la linea d’investimento seguita da JP Morgan. E tuttavia, in un caso come quello attuale, se il ciclo economico fosse sceso al punto da essere prossimo alla ripresa?
Difficile crederlo, ora. Ma lasciate che vi riporti quest’ultimo episodio, narrato nel libro. John Templeton, uno degli altri grandi investitori inclusi in questo volume, nel 1939, nella profonda depressione, nel clima di massima preoccupazione internazionale seguito all’invasione di Hitler della Polonia, quando il mondo intero sembrava dovesse finire – è poi molto dissimile il sentimento circa le nostre comuni sorti che avvertiamo ora? –, si fece prestare 10.000$, andò dal suo broker e gli chiese di acquistare 100$ di qualunque compagnia scambiasse sotto 1$. Il ligio broker gli rispose che 37 delle 104 compagnie erano in bancarotta. Templeton rispose che non importava. In un solo anno Templeton guadagnò il 100 per cento.
Diceva Templeton: «È la dove è maggiore lo spavento che abbondano le occasioni». Attenti ai mercati, dunque, in momenti consimili: potrebbe valerne la pena.
A presto.
Edoardo Varini
(31/10/2011)
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