“L’amaca” di Serra o “la moto” di Varini: dipende da quanto vi importano gli altri
Dal gennaio di quest’anno la rubrica “L’amaca” di Michele Serra è sopra la testata di “Repubblica”. In verità lo apprendo oggi, perché da tempo non compravo più il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ventun’anni anni fa.
Leggo: «Kim & Trump produce un suono da coppia comica, com Mutt & Jeff, come Ric & Gian, ma non c’è molto da ridere […] Sono abbastanza vecchio per ricordare la crisi di Cuba. Vedevo gli adulti angosciati, capivo la gravità del momento […] Ora che siamo post moderni c’è qualcosa di differente, di meno serio. Che non vuol dire meno pericoloso […] La crisi di Cuba pareva sceneggiata da Jean Renoir o da Rossellini, uno strascico della guerra, del realismo e del neorealismo, questa qui appartiene alla surrealtà…».
Per me appartiene alla surrealtà che una rubrica anteceda una testata, non ricordo altro caso al mondo. Riporto il giudizio di Giovanni Valentini, ex direttore de “L’Espresso” ed ex vicedirettore di “Repubblica”: «…l’impropria collocazione in sovratestata. Una scelta del genere significa dichiarare ogni giorno che il giornale non ha di più e di meglio da proporre ai suoi lettori. Una sovraesposizione che, come ti ho già scritto, è un obbrobrio giornalistico, uno sfregio storico». E tutti gli altri giornalisti diventano gregari. Ed al democratico Serra sta bene così.
Leggetela “L’amaca” di oggi: è un temino che può valerti un bel voto dalla prof. di lettere. Un temino di quelli che piacciono tanto agli “integrati” per usare la terminologia di Umberto Eco, soprattutto perché scritti dallo pseudodiscolo, l'”apocalittico”. Colui che rifiuta dalla sua turris eburnea la cultura di massa.
Incontrai Michele la prima volta tanti anni fa, così tanti che eravamo giovani entrambi. Lui era il direttore di “Cuore” ed io un fumettista che faceva delle strisce surrealiste, quelle sì. Perché il surrealismo non è una realtà adulterata bensì la realtà di tutti i possibili, del tutto diverso. Leggete Breton, capirete.
Be’, Michele mi disse: «Belle ma non le capiscono». Fu semplicemente per me una verifica del fatto che gli intellettuali di sinistra credono di essere superiori alla massa. E credono esista una massa.
Eccocelo ora, Michele, a fare il graffito letterario pop ogni mattina, sopra la testata del giornale più filogovernativo d’Italia. Che così diventa il giornale della sudditanza al motto di spirito e non un’espressione di giornalismo serio e aderente alle cose. Più Rossellini che Renoir, nevvero?
Dunque farà ridere “Kim & Trump”, ma a me fa ridere anche la sopravvalutazione di questa rubrichetta che viene ritenuta dagli adulatori dello status quo un precipitato di ironica saggezza che più non si potrebbe.
Io, per parte mia, sono sei anni che due volte a settimana invio ad un sempre crescente numero di lettori un commento su temi politici, economici e culturali di maggior rilievo. Un pochino più lungo ed un po’ meno algido, un po’ meno da entomologo che guarda l’andirivieni degi insetti con una punta di schifo.
Parafrasando Woody Allen, uno dei numi di coloro che leggono Michele: «Io non accetterei mai di scrivere per un giornale che accetta prima della testata l’articolo di uno come me».
Ma già dal titolo, “L’amaca”, lo vedi che chi scrive non sta per correre in piazza. L’unico dubbio è se le pantofole le abbia ancora ai piedi o se le debba mettere.
Invio ai miei lettori una foto che mi ritrae sulla mia moto. La moto fa due cose senz’altro più utili alla democrazia di un’amaca. Si muove e romba. Se stai sull’amaca e ti passa vicino, ti svegli.
A presto.
Edoardo Varini
(12/04/2017)