Troppo turchino, debordante, in ogni dove
Abbiamo appreso ieri che lo scorso aprile I giocatori di carte di Cézanne è stato venduto alla famiglia reale del Quatar per 250 milioni di dollari. Battuto di ben 110 milioni di dollari il record del precedente quadro più pagato al mondo, Numero 5, di Pollock: era il 2006.
Chissà che ne penserebbe il critico che nel 1905 definì la sua pittura «da bottinaio ubriaco». Chissà se sapeva che un bottinaio, cioè un uomo che per lavoro va a svuotare le latrine, e per di più con ogni probabilità ubriaco, Cézanne lo conobbe davvero, e fu il suo primo modello.
Era il marito di una lattaia che cucinava una delle zuppe di manzo più buone di Parigi, per gli artisti squattrinati: e chi se no? Era la bohème. Era un uomo di fatica, che non fu difficile convincere a posare. Fu sufficiente dirgli: «Ebbene, te ne starai comodo sul letto!». Lo racconta il gallerista Ambrosie Vollard, come racconta di aver sentito un vecchio pittore che frequentava Cézanne a quell’epoca dire: «Certo! Me lo ricordo. Portava un gilet rosso, e aveva sempre in tasca qualcosa per offrire una cena a un compagno». Un gilet rosso, una cena a un compagno.
Se avete presente i quadri di Cézanne e conoscete un po’ della sua vita, questa frase vi parrà dell’una e dell’altra il compendio più calzante, d’una verità tangibile, come la «tovaglia di neve fresca» che Paul cercò sempre di dipingere. Davvero, non c’è altro.
E le visite al Louvre. Tante, quotidiane, come le comunioni prescritte dal giansenista Arnauld, per cercare di mettere ordine in quella che dapprima gli parve solo «una poltiglia colorata». Ora, sebbene si possa certo convenire sul fatto che non sia questo il modo più elegante di riferirsi ai dipinti di Rubens, tuttavia occorre parimenti riconoscere che è questo senz’altro un modo efficace per preannunciare quel che il pittore di Aix-en-Provence cercò di fare per il resto della sua vita: ordinare la natura con gli occhi, trovare di ogni cosa il «punto culminante», e farne cono, cilindro e sfera, con meticolosa e paziente «opera di muratore». E l’occhio è colore, non disegno, quello è della mano.
E a Bonnard, che gli rimproverava l’assenza nei suoi dipinti di un disegno preparatorio, dei “contorni” à la manière dei classici, Cézanne rispose: «Loro facevano il quadro, io tento un pezzo di natura». E la percezione sensoria, primordiale, è colore: «Il colore è il luogo in cui si incontrano il nostro cervello e l’Universo», ebbe a dire.
Scrive Merleau-Ponty in un celebre saggio sull’artista: «L’idea di una pittura “dal vero” verrebbe a Cézanne dalla stessa debolezza. La sua estrema attenzione alla natura, al colore, il carattere disumano della sua pittura (diceva che un viso va dipinto come un oggetto), la sua devozione al mondo visibile, non sarebbero che una fuga dal mondo umano, l’alienazione della sua umanità».
Cézanne fu una persona infelice? Non credo: troppo turchino nei suoi quadri, debordante, in ogni dove.
A presto.
Edoardo Varini
(5/2/2012)