La passione, segni

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Accanto a me, l’Irlanda,

viva e forte e ricca

di suoni, d’occhi e di vita;

accanto a me solo lettere

lette e lette infinite volte

ed infine gettate

per noia.

Quanto fortemente colpisti,

con quale forza ti difendesti.

E nel momento annunciato

dalla Passione

e dai Segni

uno scatto improvviso in avanti,

attraverso la terra grassa.

Un cerchio, il cerchio,

il secondo si è chiuso

e la mia morte ho visto

vera e viva come mai!

Annunciare a te tutto questo,

il terzo giorno,

che già svettare l’airone vedesti altissimo,

non serve

sebbene lo desideri.

 

 

***

 

Il mio cuore è un lago morto, scrive Pessoa. Come dargli torto, visto la vita di solitudine e di vuoto che ha vissuto. Ancora un volta si torna all’ovvio. Mancanza di comunicazione. È tutta qui, l’arte. È tutta qui?

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Non proprio, non è solo psicanalisi, visto che ha innegabili aspetti sociali. In fondo la razza umana ha basato il suo temporaneo successo sulle altre famiglie animali sulla capacità di combinare in maniera variabile e versatile la componente individuale con quella sociale e la poesia, la letteratura, l’arte, di questo non sono che riflessi razionalizzati. L’io e il noi si mescolano costantemente in tutte le più piccole attività quotidiane e convivono, lottano, cercano di emergere l’uno a discapito dell’altro. Andiamo tutti insieme in tram ma se qualcuno ci sfiora o invade la nostra sfera ci irritiamo. Viviamo pigiati in grandi città ma ci circondiamo di leggi e norme, scritte e non scritte, per proteggerci dal vicino, dal prossimo, dall’altro. Siamo io quando fa comodo, noi quando fa comodo, quando serve, quando è necessario.

Il lago morto di Pessoa è il punto più profondo dell’io, ma un io che Pessoa racconta, mette nero su bianco e affida alla memoria, ad un baule chiuso, descrive ad altri, per quanto più immaginari che reali. Non è semplicemente uno spazio aperto per l’analisi psicanalitica. È la base di un civiltà che ha ormai quattordicimila anni che ritorna e si costruisce costantemente sempre uguale a se stessa. E non potrebbe essere diversamente, visto che le sue particelle elementari sono sempre le stesse, che pure si ricombinano in modi sempre differenti.

Pochi giorni fa ho assistito con grande emozione alla rinascita del Premio Montale. Sospeso dal 2006, quest’anno ha premiato Dereck Walcott, Fernando Bandini e, per “parole per la musica”, Roberto Vecchioni. Peccato che la presenza di quest’ultimo abbia trasformato un evento importante (la presenza di un premio Nobel per la Poesia) in un recital, soprattutto per lo spazio sottratto a Walcott. Tuttavia da questa premiazione sono emerse a mio parere due riflessioni. La prima che la periferia, anche in poesia, diventa ogni giorno di più protagonista, rendendo necessario trovare nuove definizioni socio-politico-geografiche. I “Bric” non sono più “emergenti”, i Caraibi non sono più (almeno dal 1992, anno del Nobel a Walcott), poster turistici che nascondono la pattumiera coloniale, il dialetto (lingua?) veneto non è più al margine se inserito in testi farciti di greco e latino classici alla maniera di Bandini. La seconda riflessione, che si riallaccia a quest’ultima, è che i grandi poeti della passata generazione sono per lo più (operando ovviamente una forte generalizzazione) professori universitari o comunque legati a circuiti della cultura ufficiale, a loro volta legati da prossimità personale e culturale ai circuiti editoriali. Il che da una parte ha senso, nel momento in cui la poesia si riallaccia a conoscenze o reminiscenze classicheggianti, dall’altra lo ha meno se s’interpreta la poesia, almeno dai modernisti a oggi, anche (non solo quindi), come emergenza di una farfalla dal corpo decrepito del bruco romantico e, appunto, classicista. Anime che continuano tuttora a convivere nella poesia, sia chiaro, come il protestantesimo convive con il cattolicesimo. Ma si tratta di una convivenza segnata dalla storia.

 

 

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