Dopo la morte di Elisabetta I Tudor, che non lasciò eredi, il trono di Inghilterra passò in mano all’allora Giacomo VI Stuart re di Scozia. Il 24 marzo del 1603 venne incoronato con il nome di Giacomo I d’Inghilterra. Per la prima volta nella storia del regno, il sovrano riuniva sotto di sé la chiesa anglicana inglese, quella cattolica irlandese e la calvinista scozzese.
In un clima di forti tensioni, soprattutto religiose, il 27 marzo del 1625 Carlo I re d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e Francia, successe al padre nella guida del regno. La situazione non migliorò, anzi, oltre ai dissensi di matrice religiosa presero vita anche accesi dibattiti in materia sociale e politica. Passando attraverso il governo personale del re, la riconvocazione del parlamento da lui sciolto, il potere sull’esercito irlandese passato in mano a John Pym (“l’altro re”), e la non approvazione dei 200 articoli della Magna Charta, nel 1642 scoppiò la Guerra Civile Inglese conosciuta anche come Prima Rivoluzione Inglese.
Dopo la battaglia di Oxford del 1646, l’esercito capeggiato da Oliver Cromwell sconfisse l’esercito del re. Nel 1649 Carlo I Stuart venne giustiziato. Cromwell e il parlamento dichiararono decaduta la monarchia e fondarono la Repubblica Unita di Inghilterra, Scozia e Irlanda, conosciuta anche come Commonwealth.
Il clima presente in Europa ed in Inghilterra in quel periodo è fondamentale per comprendere le motivazioni che spinsero il filosofo e pensatore inglese Thomas Hobbes a delineare in maniera forte e decisa i contorni di quello che divenne il principio fondante del concetto di Stato moderno.
Mentre si trovava in Francia, fuggito dall’Inghilterra dopo l’elezione del Lungo Parlamento nel 1640, sviluppò parti di un trattato scritto qualche anno prima e giunse alla pubblicazione della sua opera più importante, il Leviatano, nel 1651.
Come accennato in precedenza, la guerra civile nel suo paese natale influenzò a tal punto il pensiero di Hobbes da portarlo a fondare la necessità della creazione di uno Stato nella voglia dell’uomo di eliminare le guerre. Guerre causate dall’uomo stesso e dalla sua necessità, dettata dal diritto naturale, di poter soddisfare liberamente tutti i propri bisogni in egual misura. Ora, data la scarsa disponibilità dei beni disponibili, l’uomo muove battaglia contro altri uomini. Analizzando la questione, si capisce che il filosofo pone alla base della necessità di uno Stato la caratteristica dell’uomo di homo homini lupus e quindi bellum omnium contra omnes. Un richiamo questo, fin troppo evidente, al detto imperiale romano si vis pacem, para bellum.
Scrive Hobbes nel Leviatano: «Lo Stato rappresenta l’istanza unitaria e sovrana di neutralizzazione dei conflitti sociali e religiosi attraverso l’esercizio di una summa potestas, espressa attraverso la forma astratta e universale della legge che si legittima in base al mandato di autorizzazione degli individui, in cui si realizza il meccanismo della rappresentanza politica; i cittadini si trovano infatti in quella fase pre-politica che è definita come stato di natura ed il sovrano svolge un ruolo “rappresentativo” unificando in sé la “moltitudine dispersa”».
Gli uomini stabiliscono così un contratto sociale. In questo compromesso ognuno accetta di limitare la propria libertà fino al punto in cui essa non sconfina nella libertà altrui in cambio della possibilità di esercitare altre libertà che senza lo Stato rimarrebbero di diritto e non di fatto. È importante ricordare che secondo tale concezione lo Stato non acquisisce mai la libertà e l’autorità sul diritto naturale e che, cosa molto importante, la libertà è un diritto dei cittadini, mentre l’autorità è una delega di libertà altrui giuridicamente fondata su un contratto sociale. Il popolo è sovrano e assegna allo Stato l’usufrutto di alcuni suoi diritti naturali di cui mantiene una proprietà personale e inalienabile, che gli dà diritto di rientrarne in possesso in qualunque momento.
Facendo un passo avanti, la moderna concezione dello Stato è quella che vuole lo Stato garante della supremazia del diritto e delle libertà dell’uomo e per questo detto “Stato di diritto”. Nello Stato di diritto ogni singolo cittadino è uguale di fronte allo Stato ed ha gli stessi diritti, senza privilegi. Attraverso le leggi lo Stato democratico istituisce norme che tendono ad equilibrare eventuali posizioni di privilegio o di disagio al fine di ristabilire l’eguaglianza dei cittadini a fronte di eventuali squilibri. Le norme inoltre sono necessarie per regolare la convivenza in modo da renderla pacifica, rispettando le libertà dei singoli.
Introduciamo a questo punto il concetto di debito. Secondo il diritto il debito è l’obbligo giuridico di eseguire una determinata prestazione, suscettibile di valutazione economica, a favore di un soggetto determinato. Nella “nomenclatura” istituzionale il debito pubblico è l’ammontare delle passività assunte dallo Stato attraverso gli atti della pubblica amministrazione. O meglio, in quanto promotore di servizi pubblici a favore del cittadino lo Stato moderno sociale ha necessità di far quadrare il proprio bilancio statale attraverso la contabilità nazionale ovvero attraverso manovre economiche o leggi finanziarie deputate alla definizione dell’agire economico dello Stato sul fronte delle entrate per compensare le uscite, ad esempio attraverso un adeguato ed “equo” ricorso alla tassazione sui contribuenti, limitando così eventuali situazioni di deficit pubblico e conseguente debito pubblico.
Nonostante la legittimazione del concetto di debito come dovere giuridico, sorge spontaneo domandarsi sotto quale forma particolare di pensiero, lo Stato, secondo i concetti visti fino ad ora, ha preso la forma dell’azienda, legando il principio dell’assoggettamento economico dei cittadini per il pagamento del debito contratto con altri stati. E ancora, da quando un altro Stato, secondo la medesima legittimazione giuridica, ha trasformato a tal punto le sue caratteristiche da assumere in sé il diritto soggettivo correlato al debito, divenendo così creditore.