«…Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità…»
Così la Commissione dei Cinque, composta da Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin, Robert R. Livingston e Roger Sherman, redigeva il documento che il 4 luglio 1776 veniva ratificato a Filadelfia dai trentatrè delegati del Secondo congresso continentale come la Dichiarazione di Indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America.
Sei anni dopo la vittoria dell’esercito continentale di George Washington sulle forze di re Giorgio III d’Inghilterra, nel 1789, nell’odiata isola al di là dell’Atlantico, Jeremy Bentham prima e il suo alliveo Jonh Stuart Mill poi, cercavano di definire in termini più concreti quello stesso concetto di felicità individuato come obiettivo nella Dichiarazione.
L’illuminismo aveva posto la ragione al centro della crescita dell’uomo. Non era raro assistere a dibattiti o a esercizi di logica tra i pensatori dell’epoca, che davano vita a nuove idee. Spesso il fine era proprio quello di dare una risposta effettiva alla domanda sul come sarebbe stato possibile il perseguimento della felicità per l’uomo. Certo questo cammino prevedeva non solo di interrogarsi sugli strumenti, ma anche sul concetto stesso e filosofico di contentezza.
Nello stesso anno in cui veniva firmata la Dichiarazione di Indipendenza, Adam Smith poneva l’accento su di un aspetto comportamentale dell’uomo, di per sé non positivo, come l’egoismo, per dimostrare il possibile raggiungimento della felicità. Nello sviluppo del processo di crescita economica ciò che però veniva realmente quantificato non era certo un principio metafisico. Tale presupposto ha portato nel corso degli anni successivi a legare tra loro in maniera fin troppo stretta, il concetto di felicità con quello di danaro; conclusione: l’errata convinzione non che il mezzo per il raggiungimento della felicità, attraverso il benessere, sia il danaro, ma bensì che sia esso stesso la felicità. Il perseguimento della felicità, divenne il perseguimento della ricchezza. Tanto vera è tale affermazione che se oggi cerchiamo tra i sinonimi di felicità, accanto a quelli più metafisici, troviamo i termini: ricchezza, prosperità, agiatezza.
Per riuscire a dare un valore ed un senso più profondo alla ricerca era necessario trasformare l’egoismo in altruismo. Dare cioè un valore etico alle azioni dell’uomo. Ci pensò appunto Jeremy Bentham, che attraverso il pensiero utilitarista, trasformò i comportamenti umani in un insieme quantificabile in grado di produrre alternativamente piacere o dolore. Con la riformulazione del principio della massima felicità per il maggior numero di persone, Bentham aveva trasformato il perseguimento di un concetto astratto, nell’ottenimento di un risultato reale, scindendo così, indirettamente, la relazione tra danaro e felicità.
Tale processo riportava alla filosofia classica e ad Aristotele, il quale affermava che: «è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa infatti ha valore solo in quanto utile, cioè in funzione di qualcos’altro».
Nel corso dei due secoli successivi, lo sviluppo delle nazioni e delle loro economie, si mosse, come ben sappiamo, in una direzione più “smithiana” che non “benthamiana”. Nel corso del XX secolo però, il susseguirsi delle crisi economiche mondiali, portò la riflessione sulla necessità di scindere nuovamente il concetto di felicità da quello di ricchezza.
Nel 1974 un professore di economia dell’università della California meridionale e membro dell’Accademia delle Scienze, Richard Easterlin, pose l’accento su di un fatto interessante: considerando l’intero percorso di vita di un essere umano, la felicità dipende ben poco dalle variazioni di reddito e ricchezza. Formulò quello che venne poi definito il paradosso di Easterlin o paradosso della felicità. Egli teorizzò, attraverso osservazioni soggettive, come all’aumentare del reddito e del benessere economico la felicità aumenti solo fino ad un certo punto, per poi declinare nuovamente.
Benché l’analisi non abbia seguito i parametri oggettivi per poter essere definita scientifica in senso assoluto, in quanto basata principalmente su dati empirici, ha aperto la strada alla riflessione su quale debba essere, e dove vada ricercata, la felicità in tempi moderni. Quale sia il vero significato per gli individui della parola felicità, e dell’essere felici. Se essa non è più legata esclusivamente al benessere economico inteso come ricchezza, l’attenzione si è spostata sugli stili ed i comportamenti di vita e sul benessere sociale. Quale welfare i governi devono perseguire per poter mettere l’individuo, e non la ricchezza, al centro dell’attenzione pubblica.
Il Prodotto Interno Lordo, usato ancor oggi come parametro per l’individuazione del benessere di una nazione e di un popolo appare, a questo punto, non più sufficiente ai fini della determinazione della felicità degli individui che le compongono. Del resto, nel 1934, lo stesso Simon Kuznets, teorizzatore del PIL, si esprimeva al Congresso degli Stati Uniti in questi termini: «il benessere di una nazione può a malapena essere arguito da una misura di reddito nazionale».
Nell’ottica rilevata dal paradosso della felicità accanto al tradizionale PIL, oggi possiamo trovare il GPI o Genuine Progress Indicator (Indicatore del Progresso Autentico). Tale indicatore non fa null’altro che trasferire in termini puntuali e più quantificabili quella che era l’idea utilitaristica di Bentham. L’insieme dei comportamenti umani che producono piacere sono diventati nelle economie moderne l’insieme dei mezzi di produzione di beni e servizi che aumentano la qualità della vita di una nazione, mentre i comportamenti dannosi (o che producono dolore per dirla alla Bentham), sono stati sostituiti dai costi finanziari del crimine e dell’inquinamento.
Muoversi nella direzione della ricerca di energie alternative e rinnovabili, come in quella della raccolta differenziata o della diminuzione degli incidenti stradali, significa muoversi nella direzione del benessere, del miglioramento del tenore di vita, e dei rapporti che legano gli individui in una società moderna. Direzione ascritta nel concetto di perseguimento della felicità. Un sentire umano che, come è giusto che sia, si è evoluto insieme all’individuo.