14/12/2011 – La Magna Charta e la fiscalità unificata europea

Intorno al 1200, l’Europa era suddivisa in decine tra ducati e marchesati. Ciò che di più lontano possa esserci rispetto, anche solo all’idea, di unità. Siamo nel periodo della terza crociata. Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra abbandona il suo regno per difendere, in quel di Gerusalemme, le idee e le supremazie della chiesa di allora. Giovanni Plantageneto, detto anche John Lackland (Senzaterra) deve, suo malgrado, coprire il vuoto di potere lasciato dal fratello; viene così incoronato nel 1199, con il nome di Giovanni I, re d’Inghilterra.

Il giovane re, momento della sua incoronazione, ha 33 anni e già incomincia a perdere parte della sua folta capigliatura ricciuta; dicono, amasse particolarmente oziare, sorseggiando vini pregiati circondato di donne e musici; alternava lunghi momenti di cupa apatia a brevi momenti di delirante esaltazione; questi ultimi quasi sempre accompagnati da eccessi di crudeltà sanguinaria. Inaffidabile, ma sopraffino imbonitore , era in grado di garantirsi spesso la fiducia di molti. Con la stessa celerità tale fiducia mal riposta veniva costantemente tradita. Impegnato a muover guerra nel regno di Francia per riconquistare i possedimenti perduti dei Plantageneti, finanziò tale decisione applicando in maniera sconsiderata decime ai suoi baroni i quali denunciarono fin da subito abusi nell’applicazione dello scutagium. Il 15 giugno del 1215, nella brughiere di Runnymede, dinnanzi all’abdicazione dei suo baroni, non più disposti a giurargli fedeltà, fu costretto a concedere loro la Magna Charta Libertatum.

Tra i vari articoli che compongono questo documento, quelli tra il 12-esimo ed il 14-esimo possono servirci per comprendere la base di alcune decisioni attuali prese dal governo britannico. Si indica infatti in questi articoli che al sovrano è fatto divieto di imporre nuove tasse ai suoi vassalli diretti senza il previo consenso del consiglio comune del regno, il quale dovrà deliberare in merito a maggioranza dei presenti.

Trentatrè anni più tardi, nel 1248, fa la sua comparsa in Inghilterra il termine parlamento. Esso designa una assemblea formata da due rami, uno ecclesiastico e l’altro laico. Nel 1297 lo Statuto de tellagio non concedendo sancisce, tra gli altri, il principio per cui: ogni contribuzione poteva essere imposta solo dietro assenso comune degli “arcivescovi, vescovi ed altri prelati, conti, sovrani, uomini d’arme, borghesi, ed altri uomini liberi del regno nostro”.

Tradotto ai giorni nostri, dove i rappresentanti del popolo vengono eletti direttamente da esso, potremmo tradurre questi principi nella necessità che ad aggiungere nuove tasse siano coloro che direttamente rappresentano il paese nel quale sono stati eletti. A loro infatti è demandata la responsabilità del bene (in senso ampio) del paese stesso e dei cittadini che lo costituiscono.

A fronte di tali principi così storicamente e culturalmente saldi, ci si domanda per quale motivo molti interlocutori internazionali siano rimasti sorpresi, la settimana scorsa, dalla proposta fatta dal primo ministro britannico di sottoporre alla votazione unanime, dei paesi che compongono l’unione europea a 27, qualsiasi decisione in materia finanziaria. Tale proposta veniva fatta in contrapposizione all’adozione  di principi e automatismi sanzionatori in materia di pareggio di bilancio affidandosi alla giurisdizione della Corte di Giustizia europea come sede di verifica dell’adempimento di tale obbligo. Risultato. Un accordo intergovernativo senza la Gran Bretagna e dove, per dirla tutta, anche la Svezia, la Repubblica Ceca e il Portogallo vogliono prima sottoporre tale decisione alla votazione dei loro rispettivi parlamenti.

Fino alla scorsa settimana appariva evidente che l’unica regola fosse l’assenza di un sistema di regole efficaci in grado di garantire all’Europa il superamento di questa crisi. Venerdì scorso però qualcosa è cambiato. Una decisione è stata presa. Una decisione che avrebbe dovuto rappresentare il fondamento stesso dell’unità monetaria fin dal momento della sua nascita. Forti di questa scelta l’Europa unita oggi chiede, ad ognuno degli stati che la compongono, di rinunciare a parte della propria sovranità in cambio di stabilità. Oggi si chiede di seguire nuove, e purtroppo ancora troppo fumose, regole, in cambio dei principi sui quali nazioni come la Gran Bretagna hanno fondato le proprie origini liberali.

In nome dell’essere più virtuosi, alcuni paesi si sono trasformati in novelli John Lackland. Essi dettano la legge in base alle proprie priorità mascherate da bene comune. Esse impongono la loro strada per riconquistare i possedimenti Plantageneti.

Nel 1200 i baroni hanno contrattato la loro fedeltà al sovrano in cambio di regole certe e di minor concentrazione del potere. Oggi che quella Charta esiste la richiesta è di rinunciarvi in cambio di regole che di certo hanno solo, per momento, il vantaggio di pochi. Siamo di fronte ad un bivio. Decidere se mantenere i principi liberali, o ridonare il potere al sovrano che imporrà il controllo sanzionatorio come automatismo dovuto per la propria salvaguardia.

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