Quando “gli altri” siamo noi
di Gianluigi M. Riva
È sempre facile indignarsi.
In Italia è più facile che in altri posti. È anche facile lamentarsi, ma poi bisogna riflettere.
Il caso è quello – ancora una volta – di raccomandazioni, favoritismi, corruzione, varie ed eventuali.
Partiamo da lontano. I santi sono pochi. E comunque anche i santi facevano i santi perché agognavano una ricompensa: il paradiso. I cavalieri senza macchia, sono meno dei santi. Di onesti ce ne sono, almeno quanti disonesti. Di gente che sbaglia c’è pieno ed altrettanta è disposta a perdonarsi per ciò che fa. A giustificarsi.
Il Diritto deve adattarsi alle esigenze della società. Più spesso ne è il riflesso, nel bene o nel male. A livello sociologico ci sono molte cose che si antepongono al rispetto di una legge. L’appartenenza religiosa ad esempio, è un sentimento molto forte, che spesso vince sul rispetto di una regola. Così la “protezione” familiare. La famiglia vince su tutto. Ecco perché, anche nel Codice Penale, la persona che “favorisce” un familiare che ha commesso un reato, ad esempio nascondendolo in casa, non è punibile.
Le persone cercano di accudire e favorire i propri familiari. Anche se il familiare non ha per forza tutte le qualità richieste. Cercare di “piazzare” il figlio è una cosa che tutti i genitori, potendo, farebbero. È normale.
La raccomandazione – o segnalazione – è un concetto che di per sé, non dovrebbe essere negativo. È condivisibile che chi debba scegliere qualcuno per una posizione di fiducia, preferisca, a parità di merito, una persona segnalatagli. E a sua volta il raccomandante, sarebbe il garante morale di quelle qualità aggiuntive segnalate. E si guarderebbe bene dal segnalare chi non è all’altezza, per evitare di perdere la propria reputazione, che di riflesso dovrebbe essere messa in gioco.
Purtroppo però, la raccomandazione, negativa lo è diventata. Perché, come tutte le cose in Italia, è diventata una pratica abusata. Spesso puntiamo il dito, ma se si presentasse l’opportunità, probabilmente rifletteremmo bene se rifiutare una raccomandazione per un posto che desidereremmo. La scusa è sempre quella che, ovviamente, siamo consci di meritare quella posizione. E poi “lo fanno tutti”. E ci perdoniamo. Per noi va bene, per gli altri no.
In realtà è il sistema che è malato. Ma il sistema siamo noi. Ogni giorno, anche nelle piccole cose, l’italiano ha i suoi contatti, le sue cerchie, i suoi favori da fare e da ricevere, i suoi – tanti – problemi da risolvere. Non è per forza una cosa brutta, solo che è degenerata.
All’estero ad esempio, se un Università vuole un professore importante, di fama, è disposta a pagarlo molto. Spesso capita che – comprensibilmente – costui sulla bilancia metta un posto di lavoro anche per la consorte, che – ovviamente – dovrà trasferirsi con lui e perdere il precedente lavoro. Accettabile.
In Italia però non si potrebbe fare! Perché siamo bigotti. Facciamo molto peggio, ma sempre con luci soffuse e porta chiusa. E siamo abituati a guardare dallo spioncino quello che intanto fanno gli altri.
Allora cosa si può fare? Cambiare mentalità di sicuro, ma è lunga e difficile. Nel frattempo si dovrebbero fare leggi appropriate. Il problema è come farle.
Che precetto dovrebbero contenere mai?! «Il figlio del Professore non può fare il Professore nella stessa università»? «Il portaborse del parlamentare non può essere un suo familiare»?
I “figli di” in questo modo avrebbero meno diritti degli altri. Ma magari, in realtà, più talento o merito. Storia e attualità ci insegnano che i “figli di”, spesso sono bravi quanto, se non più, dei genitori. E spesso oltre alla normale gavetta, devono pagare lo scotto del nome. Perché per gli altri essi saranno sempre e comunque lì solo per il nome che portano. Certo sarà loro dovere smarcarsi da questo fio e dimostrare ancora di più il loro merito.
Sicuro è che un potente, un responsabile di qualcosa, una figura istituzionale, non può permettersi di diventare “ricattabile” perché ha dovuto chiedere cortesie per favorire l’uno o l’altro, anche se in buona fede o per buon cuore . Ma è difficile.
Come può essere difficile per un alto dirigente di una società finanziaria – è un mero esempio – rifiutarsi di fare determinate operazioni che, se anche lecite, sono scorrette e nuoceranno agli interessi di qualcuno. Ma il rifiuto potrebbe comportare il licenziamento con qualche altra scusa, o la brusca fermata della carriera. E si viene pian piano stretti in un circolo vizioso, da cui è difficile discostarsi, perché una scelta morale giusta, può però costare troppo a se stessi e ai propri familiari.
Come poi è comprensibile che una persona che abbia raggiunto una certa posizione tenda a conservarla e a mantenere il proprio potere.
Come può essere comprensibile – ma certamente non condivisibile, né accettabile – che un funzionario che gestisca appalti da milioni e abbia il potere di gestire quotidianamente decisioni che spostano tutto questo denaro da una parte o dall’altra, possa esserne tentato.
Sono tutti comportamenti umani e quindi comprensibili, perché come detto, di santi ce ne sono pochi.
Ed ecco perché è tanto più necessario che ci siano regole.
All’estero i funzionari, i politici, i dirigenti, sono meno corrotti. Ma non certo perché sono più onesti. Solamente perché ci sono migliori regole, pene certe e stipendi adeguati alle responsabilità effettive ed ai meriti. Certo, sono forse più corretti (di facciata), ma quello dipende dai costumi.
È facile, si diceva, puntare il dito e dire: «Quello dovrebbe dimettersi perché è indagato. All’estero lo avrebbero già fatto». È vero, dovrebbe. Ed è vero, all’estero è uso e costume. Ma all’estero se uno è indagato, entro un anno c’è una sentenza chiara, netta, e certa, che lo condanna o lo riabilita.
Pensiamo poi a questa “moda” del merito. Certamente, viva la meritocrazia. Ma alle volte c’è chi la utopizza come massimo strumento di valutazione. Una società come quella americana, strutturata sul merito e le capacità personali, è anche una società di sciacalli sul posto di lavoro. È anche la società dove si è licenziati in tronco senza giusta causa e senza preavviso. Quindi occhio a ciò che sogniamo: potrebbe avverarsi.
C’è poi chi ha proposto di scegliere i più alti dirigenti delle società pubbliche in base ai CV inviati spontaneamente dai candidati, votando il migliore. Ottima idea ma è cieca. Perché a parte le competenze, sono le persone che contano. E le capacità, il talento, non si apprendono in nessun master.
Inoltre per posizioni “chiave” potrebbe essere necessario o opportuno avere “uomini di fiducia”. E quindi paradossalmente potrebbe fare meglio una persona meno meritevole, di una molto più adatta sulla carta. Potrebbe – in certi casi – essere meglio un politico, rispetto ad un tecnico.
E allora come si fa?
Il vero problema è che il Diritto dovrebbe tutelare, regolare, vietare, sanzionare. Più in particolare, in questi casi, dovrebbe evitare che possano accadere certe cose e adottare adeguati strumenti di controllo e prevenzione. Per farlo le leggi dovrebbe essere redatte in forma semplice, chiara, pratica. Dovrebbero essere precise, senza lasciare a chi è in malafede l’opportunità di interpretarle a proprio vantaggio.
Per fare questo bisogna che a scriverle sia gente competente, preparata e capace. Cosa che nel centro di produzione normativa – il Parlamento – ormai di rado accade. La tragedia in realtà è un’altra: quando un tumore arriva ad estendere la propria metastasi a quegli organi che producono le cellule di difesa è la fine. Perché il tumore produrrà cellule di difesa che non attaccano più il tumore, anzi lo difendono. Le cure in questi casi sono drastiche.
Eppure anche qui l’italiano vuole una cosa a parole, ma poi se ne lamenta. Al bar si parla di quanto ci vorrebbe qualcuno di “decisionista”, in grado di “mandarli tutti a casa”. Ma nell’atto pratico, è dura cambiare il sistema da dentro. Per farlo, bisogna battere i pugni. Ma poi, fuori, ci sono gli stessi italiani che ti accusano di essere antidemocratico.
La verità è che nessuno vuole rinunciare a quello che ha. Sono sempre gli altri a dover iniziare.