Il bacio filosofico tra lingua del diritto e lingua politica

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Perché tra il dire e il fare, c’è di mezzo “e il”

di Gianluigi M. Riva

Il bacio è il trionfo simbolico dell’agape ed in questo senso il “giuridichese e il “politichese” possono coniugarsi per raggiungere la più idilliaca perfezione o la più volgare manifestazione. Come tutte le cose del resto.

Senza travisare il contesto, prendiamo spunto dall’attualità. Il Prof. Franco Coppi, avvocato di Berlusconi in Cassazione, ha strappato la benevolenza giuridica degli “ermellini” anche grazie alla propria strategia processuale. E grazie – si dice – alla sua arringa finale, ossia la più alta e nobile manifestazione del linguaggio giuridico dei Principi del foro: l’Ars Oratoria.

Questione che ci porta subito al rapporto tra linguaggio e diritto. Un rapporto che si fonda su molti aspetti in comune.

Da un parte il diritto si esplica per il tramite di una lingua e di un linguaggio. Dall’altra lingua e linguaggio necessitano regole che ne garantiscano funzionamento e senso.

Si possono poi correlare concetti come il “diritto al linguaggio” ed il “linguaggio del diritto”. Il diritto al linguaggio è forse espressione tecnico-filosofica che media tutti quegli altissimi principi legislativi quali il diritto di pensiero, di opinione, di manifestazione ecc.. Il linguaggio del diritto è invece quello scheletro grammaticale e semantico che il diritto adopra per costruire la sua struttura.

La proposizione giuridica infatti ha natura e caratteristiche particolari, sulle quali i filosofi del diritto hanno speso molte riflessioni deontiche.

Nel lato pratico ciò si esplica nella scelta di parole adatte da utilizzare in una proposizione giuridica, a seconda del registro che necessita. Infatti una norma costituzionale è diversa da una civile o penale. È poi diverso il linguaggio di una legge, da quello di un contratto, di una memoria difensiva o di una sentenza, dove va giustificato un ragionamento giuridico.

Sono tutti ingranaggi di un complesso sistema di meccanismi, come in un orologio. Vanno costruiti con cura, montati adeguatamente, manutesi e confezionati nella giusta forma stilistica. La complessità di tale sistema deve produrre la semplicità dello scopo: segnare l’ora giusta.

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Ogni ambito specialistico ha la propria terminologia tecnica. Vero, ma la differenza che intercorre tra la terminologia tecnica e un linguaggio specifico e quella che c’è fra la forma dell’orologio e il meccanismo dell’orologio. Per intenderci: medicina, ingegneria, matematica ecc. hanno una terminologia tecnica. Ma il linguaggio nel quale questa terminologia è declinato, prescinde dal contenuto, dall’oggetto. Ingegneria è la medesima in Italia, U.S.A. e Irak, cambia solo la lingua con la quale la si descrive.

Il diritto invece si esplica tramite un linguaggio ed unisce il contenuto alla forma. Come corpo e mente, che si influenzano a vicenda.

Il linguaggio del diritto poi, ha diversi livelli. Quello letterale è solo un veicolo. C’è anche quello contestuale, astratto. Infine c’è quello interpretativo teorico o concreto. E più è ambiguo il dato letterale, più le interpretazioni possono essere differenti. Cosa che in una lingua come l’italiano può essere alimentata facilmente.

L’innumerevole terminologia semantica alla quale si può attingere nella lingua italiana, coniugata alla struttura grammaticale e logica della lingua, che prevede preposizioni, declinazioni, suffissi, concordanze, offre la possibilità di creare proposizioni sibilline. Ma l’ambiguità non va d’accordo con la certezza del diritto, solo con gli avvocati.

Diciamo che il linguaggio giuridico è un’arma potente che se dovesse finire nella mani sbagliate (ma ormai è già successo), potrebbe fare molti danni!

Ecco perché nella comparazione dei diritti, la pratica della traduzione non è un’attività che coinvolge solo la mera lingua. Il traduttore deve avere tanto padronanza delle due differenti lingue, tanto dei differenti sistemi giuridici, ognuno dei quali con precise categorie di beni giuridici tutelati – che spesso non collimano – e specifici concetti e principi giuridici a fondamento del proprio sistema. Il diritto quindi non si traduce, si traspone.

Il diritto è poi tanto scritto, quanto verbale. È un mondo nel quale il concetto di “parola” data da un uomo all’altro (contratto verbale) assume ancora un valore cardine. È il mondo dove si coagulano i concetti di buona fede, buon padre di famiglia, diligenza, buon costume e ordine pubblico. Tanto scritti quanto orali.

Gli anglosassoni, come prima di loro i latini, hanno il vantaggio di avere una lingua sintetica ed essenziale. Questo permette loro di coniugare il diritto in maniera semplice, pratica ed efficace. Ciò comporta che il dato letterale, per quanto interpretabile, non offra la possibilità a chi è in mala fede per interpretarlo a proprio vantaggio.

Una buona pratica che anche gli operatori del diritto italiano dovrebbero/potrebbero mettere in atto. Basta concentrarsi anche sul dato linguistico. Il linguaggio giuridico, dev’essere esercizio di sottrazione. Inoltre sintesi ed essenzialità, se usate adeguatamente, sortiscono più effetti delle ampollosità barocche

Ecco il valore dell’arte retorica, materia che una volta veniva insegnata. La retorica è la disciplina con la quale va veicolato il concetto giuridico. È funzionale all’etica sociale, alla quale il diritto si ripromette di rispondere efficacemente.

Il diritto dunque schiude il suo vero potere nell’uso comunicativo che se ne fa.

La comunicazione è potere. Cosa che contraddistingue un altro linguaggio, quello politico. Linguaggio che dovrebbe essere servente al linguaggio giuridico, in quanto prodromico alla sua produzione. Il politichese, così come il linguaggio del diritto italiano degli ultimi tempi, è divenuto sempre meno tecnico, assurgendo purtroppo ad arte dell’elusione, rispetto al messaggio veicolato.

Ecco quindi che il bacio artistico di questi due elementi, il linguaggio politico ed il linguaggio del diritto, può essere espressione della più alta efficienza o della più bassa inadeguatezza.

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