Quando Stalin dà dell’illiberale a Hitler
di Gianluigi M. Riva
«Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita per difendere il tuo diritto di dirlo». Suona più o meno così cotanta nobile ed enfatica frase, attribuita al buon vecchio Voltaire. In molti ci si riempiono la bocca con roboanti e suggestivi simposi al bar sul «tutti hanno diritto di…».
Parabole di onanismo intellettuale spesso condite qua e là dai sempre verdi termini “democrazia”, “popolo”, “libertà”.
Roba che chapeau …se alle parole seguissero i fatti. Già perché l’empirico dato sociale (e, peggio, giuridico), dimostra la discrasia tra i principi e la loro applicazione. Manca quel pizzico di convergenza che possa trasformare i paroloni in coerenza.
E nella terra di nessuno tra pensiero e applicazione, lo scontro fra fazioni è sempre lì, che cova sotto le ceneri. I fatti di settimana scorsa lo dimostrano. Manifestazione della Lega a Roma, con partecipazione dei neo-fascisti di Casa Pound e contromanifestazione di antifascisti.
Un passettino indietro, per annoiarci su qualche definizione da Devoto-Oli.
Democrazia: Forma di governo fondata su una visione egualitaria dei rapporti sociali e dei diritti politici, esercitata dal popolo (direttamente o indirettamente).
Libertà: stato di autonomia sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di ordine morale, sociale, politico.
Opinione: l’interpretazione di un fatto o la formulazione di un giudizio in corrispondenza di un criterio soggettivo e personale.
Paradosso: proposizione formulata in apparente contraddizione con l’esperienza comune o con i principi elementari della logica ma che, sottoposta a rigoroso esame critico, si dimostra valida.
E, giusto per concludere in bellezza, Ipocrisia: simulazione di atteggiamenti esemplari estesa specificatamente all’ambito morale e dei rapporti sociali e affettivi.
Amalgamiamo i concetti: la democrazia (demos = popolo e cratos = potere, ossia potere al popolo/governo del popolo) si fonda sul diritto paritario di ciascuno di formulare un autonomo giudizio soggettivo. Se questo diritto è dato a uno, deve essere dato a tutti. Se è dato a qualcuno e non a tutti, si ha un paradosso, che si esplica in un’ipocrisia del sistema.
Arriviamo al punto. La nostra Carta Costituzionale ci rincuora con principi quali, fra gli altri, quelli di cui agli artt. 3 (eguaglianza), 18 (libertà di associazione), 21 (libertà di manifestazione del pensiero).
Vi è poi, però, alla fine dell’articolato costituzionale, la parte delle “disposizioni transitorie e finali”. Fra esse la XII: «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».
Norma storicamente comprensibile all’indomani di una guerra civile e di un regime dittatoriale. Poi c’è la Legge Scelba (L. 143/1952), nota come legge sull’“apologia di fascismo”. Dà attuazione alla XII disp., vietando di propagandare la costituzione di un gruppo o movimento riconducibile al fascismo, o l’esaltazione pubblica di esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, a pena di reclusione e di multa.
Dunque, per chiarire, partiti come (fu) l’M.S.I., movimenti come il Fronte della Gioventù, gruppi come Casa Pound, sono (teoricamente) illegali.
Poi, sempre per chiarire, l’esaltazione è «attribuzione di pregi eccezionali». Quindi: se Tizio attribuisce pubblicamente pregi eccezionali a Giovanni Gentile per la sua riforma – esponente fascista più fatto fascista – è (teoricamente) perseguibile. Se poi Caio esalta la difesa dei patri confini tramite l’ausilio di militari volontari – principio fascista più metodo fascista –, parimenti commette (teoricamente) reato.
Alla rigidità della norma è però giunta in soccorso la Corte Costituzionale, subito investita della questione di conflitto con l’art. 21 Cost., la quale con Sentenza n.1 del 1957 stabilisce che si ha reato solo se l’esaltazione è tale da condurre alla riorganizzazione del partito. Poi una cassazione del 6 giugno 1977 ci confida che sì, ok, l’apologia è reato, ma solo col fine della riorganizzazione, perché la Costituzione assicura a tutti (ma dai?) la libertà di manifestare il proprio pensiero.
Quindi dal 1977 anche i fascisti possono manifestare le proprie idee!
Un’ultima Cassazione punisce il saluto romano, ma solo in riferimento alla Legge Mancino, che vieta la discriminazione razziale, etnica e religiosa. Ovviamente perché nella democratica Repubblica c’è tutta una gamma di reati di opinione, ossia di pensieri vietati.
Non stupiamoci. Se è vero che in altre democrazie, come negli U.S.A., la libertà di espressione è talmente sentita che sono ammesse e concesse manifestazioni del pensiero di ogni tipo, è anche vero che la democrazia è un tipo di potere.
E il potere si auto-protegge. In sostanza la democrazia ci consente di pensare ciò che vogliamo, purché sia democratico. Il che sta bene a chi è democratico, ma sta un po’ stretto a chi non lo è. Questo limite serve per mantenere l’ordine costituito ed è un “male” necessario per evitare un rovesciamento dell’Ordinamento per come lo si è concepito.
Il paradosso sta nel fatto che il sistema democratico è difeso, nella pratica, da un sistema non democratico: il sistema gerarchico militare. E nella teoria da un sistema democratico che però non ammette l’antidemocrazia. E dunque totalmente democratico non è.
Un tale Norberto Bobbio, rifacendosi a un altro tale (certo Tocqueville), affermava che «la democrazia è la dittatura della maggioranza».
Forse proprio ciò ha spaventato i nostri padri costituenti, giacché vietato non è il fascismo (come ideologia), ma il partito fascista. È già perché – ricordiamolo – democrazia è «potere al popolo» e se il popolo votasse un partito fascista si avrebbe un piccolo baco del sistema. Questo ovviamente perché si parte dall’assunto che un partito fascista sia antidemocratico. Ma il caso Castagna di qualche anno fa, pone qualche problema concreto.
Alberto Castagna (un omonimo del presentatore scomparso) fondò il “Partito fascista repubblicano”. Nel 2010 l’ipotesi di reato per apologia di fascismo fu archiviata proprio perché non abbracciava l’intero corpo dei metodi dei disciolto partito fascista e dunque non si poneva in contrasto con l’ordinamento democratico.
Fondamentalmente, essere un po’ fascista è concesso.
E se la maggioranza del popolo non volesse la democrazia il paradosso diventerebbe problematico.
Ma a ben guardare i padri costituenti hanno lasciato una traccia delle loro intenzioni per il futuro. Infatti i divieti si trovano nelle “Disposizioni transitorie”. Se sono transitorie sono tali perché qualcuno auspicava che un giorno non sarebbero più servite.
Eppure servono ancora. Finché vecchi e, soprattutto, giovani si dividono ancora fra comunisti e fascisti, una svolta è improbabile. I più lungimiranti sperano che un domani queste fazioni vengano viste come noi vediamo oggi Cesariani e Pompeiani.
Però gli italiani sono sempre stati – e purtroppo forse sempre saranno – guelfi contro ghibellini, Nord contro Sud, repubblicani contro monarchici, Inter contro Juventus.
L’unica cosa un po’ paradossale è che gli antifascisti democratici, manifestano perché pretendono che le istituzioni vietino ai fascisti antidemocratici di manifestare.
Che è una visione democratica un po’ alla Henry Ford, il quale saggiamente sottolineava: «Ogni cliente può ottenere una Ford T di qualunque colore desideri, purché sia nera».