Re/evolution

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Mai Stato così bene

di Gianluigi M. Riva

Stato; Stato. Si fa presto a dire Stato!

Al mondo non esiste nessuno che non soggiaccia all’egemonia di uno Stato. Certo, ci sono gli apolidi, ma costoro semplicemente non sono cittadini di Stato alcuno. Però vivono in qualche altro territorio e sottostanno alle norme che vigono colà.

Certamente, ci sono Paesi nei quali ci sono rovesciamenti, guerre civili e rivoluzioni …o mafie. Eppure, anche lì, vi sono varie norme – non codificate – imposte da un diritto che non è più quello “naturale” delineato dalle teorie accademiche, ma che diviene di “sopravvivenza”. E viene integrato dalle regole – non scritte – di chi la rivoluzione, il rovesciamento, la guerra civile o la mafia, la conduce. La legge del più forte.

Tutti dunque sottostiamo a delle norme. Lo Stato non è solo una necessità umana per organizzare una collettività su un territorio in maniera strutturata. Esso è anche e soprattutto una proiezione naturale dell’evoluzione sociale.

Eppure spesso ci va stretto.

Spesso non approviamo, né condividiamo molte delle regole imposteci. Sovente non percepiamo un “ritorno” in termini di servizi, rispetto ai poteri ai quali abdichiamo. In effetti, al di là di ogni definizione giuridica, uno Stato è proprio questo. Il popolo delega lo Stato a gestire, amministrare e regolamentare la vita della comunità; rinuncia a diritti originari quali l’autodifesa o la libertà totale (nel senso anarchico del termine), e affida a questa entità la propria ricchezza affinché gli venga restituita in servizi collettivi, pubblici. Affinché lo Stato garantisca il soddisfacimento dei bisogni primari.

Tutto ciò è ragionevole e accettabile ..sinché i termini del “contratto sociale” vengono rispettati. I problemi nascono quando lo Stato inizia a non funzionare. Perché quando ciò accade, piano piano, la comunità inizia a soffrire lo Stato come qualcosa di imposto, che a nulla serve e che sugge solamente le tasse. Se l’inefficienza dello Stato diventa metastasi, allora il malessere collettivo diventa scontro sociale.

E poi ribellione.

Rivoluzione.

Guerra civile.

Golpe.

Tutti passaggi non proprio indolore.

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E in effetti, ultimamente, le cose non funzionano granché. I cittadini si sentono sudditi, depauperati di ogni reale potere e imboniti con variegati diritti di carta, che nei tribunali diventano anni di spese e incertezza. Le condizioni per una rivoluzione a ben vedere ci sarebbero da un bel po’. E c’è pure chi la auspica la rivoluzione. Ma siamo proprio consci di ciò che significhi una delle “soluzioni” suddette?

Stato versus rivoluzione.

STATO: «Organizzazione politica indipendente (sovrana) assunta da una comunità (popolo) stabilita su di un determinato territorio, affinché governi ed eserciti i poteri istituzionali su quel dato territorio e quella data comunità».

RIVOLUZIONE: Movimento organizzato e violento con il quale si instaura un nuovo ordine sociale o politico tramite il rovesciamento di quello costituito.

Un sistema giuridico, comprensibilmente, non prevede al suo interno regole o modalità di un suo radicale cambiamento. Sembra lapalissiano infatti che uno Stato non preveda una procedura per la sovversione. Eppure se ci fosse una valvola di sfogo giuridica, un modo per consentire un reale ed effettivo cambiamento, forse si eviterebbero molti scontri sociali e molti focolai di sommossa.

È ovvio che la rivoluzione è uno sfogo naturale di una collettività esasperata, che necessita di nuove regole sociali. Ma ci rendiamo veramente conto cosa comporterebbe?

Se domani ci svegliassimo e ci fosse una rivoluzione, le cose sarebbero vagamente diverse da come siamo abituati. Innanzitutto i servizi pubblici essenziali garantiti dallo Stato non sarebbero, appunto, più garantiti. Tradotto: niente energia elettrica, niente comunicazioni (ivi compreso internet …quanto riusciremmo a resistere in astinenza?!), niente trasporti.

Ma, poco alla volta, anche niente acqua, riscaldamento, gas, ritiro dei rifiuti. Niente risorse (come cibi o medicine sugli scaffali). Incertezza del denaro (tutti preleverebbero tutti i risparmi …ma che valore avrebbe veramente un pezzo di carta!?).

La rivoluzione è anarchia. È uno Stato agonizzante che cerca di difendersi con la forza, contro rivoluzionari che cercano di sovvertirlo con la forza. L’anarchia è assenza di regole. E senza regole l’uomo ritorna ad essere un animale.

Non è poi così lontano questo stato di cose. Viviamo in un precario equilibrio, dove basta uno schiocco di dita (ed interessante è capire di chi sia la mano) per farci regredire. Basta guardare i video del “Black Friday” americano nei supermercati, dove la gente fa risse o scene anche peggiori, per accaparrarsi la “roba” di verghiana memoria. O basta vedere ciò che è successo al padiglione della Svizzera ad Expo, la quale aveva messo a disposizione liberamente dei beni, fino ad esaurimento, per responsabilizzare le persone: ergo, esauriti subito.

Come ci comporteremmo noi, educati, civili e formati cittadini in un contesto senza regole, senza nulla di garantito, senza risorse? Cosa faremmo se per strada la gente si ammazzasse per i bisogni più elementari? La cosa vale anche per le guerre civili (che poi tendenzialmente sono più incivili che civili). E vale anche – in misura più “ordinata”  per i colpi di Stato, dove però rimane un inquadramento normativo.

Allora siamo così sicuri che il nostro malandato Stato vada così male!? …in effetti, un dato molto, ma molto interessante, è che le condizioni teoriche per una rivoluzione ci sarebbero anche (e anche da un po’). Ma nulla accade..

Ci sono milioni di persone sotto la soglia di povertà. Gente che ha fame. La fame vera. Ingiustizie e burocrazia. Mala sanità. Corruzione dilagante. Mancanza di lavoro. Giustizia lenta, iniqua e approssimativa. E – purtroppo – tanto, tanto altro ancora. E non in Africa (non solo), ma anche nel super-civil-civilizzato occidente dell’”Homo Economicus”.

Eppure niente. Nulla si muove nelle piazze.

Why?!

Be’, uno spunto può venire proprio da quei servizi essenziali a quali dovremmo rinunciare, quanto meno per un po’. Chi di noi saprebbe rinunciare all’acqua corrente o all’elettricità? Avanti i coraggiosi: alzino la mano.

Dopodiché chiediamoci chi di noi, uomini e donne occidentali del ventunesimo secolo, sarebbe disposto ad andare in piazza a farsi sparare addosso? Forse anche proprio la consapevolezza della potenza di fuoco e gli strumenti di repressione che ha a disposizione uno Stato moderno, inconsciamente ci fanno desistere.

Pensandoci bene gli scontri di piazza ce li abbiamo. Ma ciò avviene nel contesto “protetto” della legge e dello Stato di Diritto. I manifestanti sanno che le Forze dell’Ordine useranno strumenti non letali. Quanti black block farebbero tafferugli se sapessero che ci sono piazzate le mitragliatrici (pronte a sparare)?

C’è poi un altro elemento. Molto più sfuggente e incerto.

Il nostro cervello: che ha una data capacità di elaborare le informazioni. Un tempo le persone vivevano una vita con ritmi decisamente più lenti e una mole di informazioni finita. La vita era cadenzata dal lavoro, poche esigenze primarie e poche fonti di informazioni, di portata locale. La nostra mente aveva il tempo di (e l’isolamento per) elaborare. La mancanza di una delle poche esigenze fondamentali, si avvertiva più intensamente (e non era controbilanciata da altri succedanei di comodità).

Oggi invece tutto è rapido, tutto è globale, interattivo e 24 ore su 24. Siamo bombardati da informazioni (spesso inattendibili) e da disinformazione (spesso accurata). E lo siamo ovunque. Con notizie false e bugie commerciali che socialmente accettiamo. Eccessi di aggettivazione e “superlativazione verbale” che sviliscono il valore comunicativo di ciò che è reale. Sentimenti compresi.

Siamo sempre reperibili. Sempre connessi. I canali tv sono centinaia, con migliaia di contenuti. Sempre, per tutti i gusti. Ci portiamo addosso un telecomando, con applicazioni, suoni, immagini, studiate per inviarci costantemente stimoli. Abbiamo accesso a una dimensione virtuale di miliardi di miliardi di dati, sempre in divenire. Alla quale beviamo, beviamo e beviamo. Come tossici mutlimediali.

E il nostro cervello non ha più il tempo per elaborare ogni singola informazione. Le beve, le digerisce, le espelle. E poi ne vuole ancora. Perché è assuefatto. Il nostro encefalo poi, ha abilità determinate dall’evoluzione per scopi bucolici, non multimediali. È mono-tasking. Significa che è bravo a processare un’informazione alla volta. Automatizza i processi cognitivi: ossia al ripetersi costante di un certo stimolo, sviluppa una risposta automatica.

Tutto ciò significa che oggi il nostro cervello è saturo di dati che non ha il tempo e la capacità di elaborare e per i quali ha sviluppato delle “risposte” automatiche. Inoltre il bombardamento cognitivo ha aumentato la soglia di tolleranza. La mente si abitua a un contesto di menzogne, esagerazioni, violenza, depravazione e tanto altro (troppo altro) e abbassa sempre più l’asticella dello standard di accettabilità. Certo, non è un discorso assoluto. Va inquadrato in vari strati di correlazioni e concause. Ma bisogna considerare come la complessità e la mole delle informazioni alla quale siamo esposti, non ci permettano di far fermentare naturalmente una risposta genuina.

Guarda caso la meditazione è un processo di rallentamento del pensiero.

Siamo schiavi dei nostri bisogni (reali o creati) e succubi dei nostri stessi meccanismi evoluzionistici. Ci chiediamo mai come può essere che animali come greggi di pecore possano essere lasciate libere di pascolare senza timore che fuggano? Perché non scappano verso la libertà?

Perché hanno bisogno. C’è qualcuno che nonostante le sfrutti e le macelli, sopperisce ai loro bisogni: dà loro nutrimento, offre loro un riparo dai (dagli altri) predatori. Il cane pastore aiuta. La paura è sempre un ottimo alleato.

Qualcuno queste cose le sa. Ed è chi comanda veramente.

E non è lo Stato.  …e infatti oggi fare la rivoluzione contro lo Stato non serve a niente.

I politici sono solo degli amministratori. Lo sono sempre stati.

Da che mondo è mondo, il potere ce l’hanno i sacerdoti. I sacerdoti sono coloro che hanno il potere sui gangli dell’informazione. E non dell’informazione nel senso giornalistico, ma dell’informazione nel senso fattuale e comunicativo del termine. L’informazione è potere.

A noi pecore la libertà di processare questa ennesima informazione, ognuno coi propri ovinici tempi, per capire chi sia il nostro cane da guardia, chi sia il nostro pastore, cosa sia l’ovile, chi sia il padrone del campo…

Poi, magari, riusciremo a capire perché non ci ribelliamo.

Però è anche vero che ogni Sistema è un Sistema aperto. Non sembra, ma è così. Ogni struttura ha il suo modo per farvi ingresso. Lo era il sistema feudale, lo è anche l’attuale sistema. Basta capirne i meccanismi e avere le giuste capacità. Sono sempre le persone che fanno la differenza.

Niente belati lamentosi: il mondo ha bisogno di pecore, cani e pastori.

Rivoluzionari: che ne è Stato di voi?!

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