In una tarda mattina di domenica del bizzarro maggio che ci siamo lasciati alle spalle, decido di approfittare di uno squarcio di sole che interrompe i continui diluvi (e nevicate…) per allenarmi in mountain bike.
Mentre acquisto il biglietto sul sito di Trenitalia, mi chiedo come mai nessuno abbia pensato, tra un litigio e l’altro con i concorrenti di Italo, di consentire di acquistare per via elettronica anche il supplemento treno, ma poi dico a me stesso che forse la dirigenza di Trenitalia è ancora memore che quando c’era “lui” i treni arrivavano in orario e quindi pensano che, come forse avrebbe detto Gaber, la troppa efficienza è di destra.
Inforcata la bici raggiungo in breve tempo lo scivolo che dà accesso al passante ferroviario e da lì direttamente ai binari ferroviari.
Mentre affronto i primi aspetti tecnici dell’allenamento, evitando di giustezza le deiezioni umane depositate dagli ospiti notturni dell’area, mi domando quante persone – che magari attraversano la città in taxi – conoscano l’esistenza del passante ferroviario, che come suggerisce il termine, attraversa la città.
Ricordo di averlo usato, insieme a tram e metro, per recarmi ad un appuntamento di lavoro a Pioltello durante un piovoso venerdì pomeriggio autunnale e di come, invece di rimanere bloccato per ore nel traffico, sono tornato a casa in tempi umani.
Ovviamente in quella occasione ho trovato strano che il treno recasse sul display la scritta “Legnano”, visto che la città di Alberto da Giussano è esattamente agli antipodi rispetto alla destinazione del mezzo, ma per fortuna da bambino avevo sempre con me il Manuale delle giovani marmotte e non mi sono lasciato impensierire.
Una volta sul treno mi sono piazzato negli spazi antistanti le uscite, in quanto quel convoglio, al contrario di molti altri su cui ho viaggiato, non era provvisto dell’altrimenti comodissimo deposito bici.
Durante il breve viaggio che in circa mezz’ora mi portava dal pieno centro di Milano alle ridenti colline della Brianza mi sono intrattenuto in conversazione con alcuni “nuovi italiani” che rientravano da lavori e faccende quotidiane: chi aveva finito il turno di notte in un cantiere del metro, altri, evidentemente meno qualificati, da una discarica.
Come sempre in questi casi mi ha colpito il fatto che usassero l’italiano non solo per parlare con me, ma anche per comunicare tra di loro, ovviamente, visto che uno pareva natio dell’Africa Centrale e gli altri sembravano di provenienza balcanica.
Un lessico semplice, ma non stentato e molto esplicativo, quasi come quello di Ingroia.
Certo non sono questi gli italiani “choosy” di cui tanto abbiamo sentito parlare.
Ma ecco la stazione di arrivo che riporta la mente dai massimi sistemi ai ritmi di allenamento.
Mentre percorro, con entusiasmo eguagliato solo dalla fatica, le impervie salite capisco perché le colline sono ridenti: l’immagine di un quasi cinquantenne che sbuffa e suda sotto il sole di maggio provoca senz’altro ilarità.
Giunto in vetta mi trovo di fronte, oltre alla stupenda chiostra delle Prealpi, una scena che mi riporta alla mia prima infanzia: in cima al colle c’è un rifugio degli alpini pieno di famiglie impegnate nella classica “gita fuori porta”. Bambini che giocano a pallone (non esattamente un’idea geniale in cima ad un colle circondato da pendii scoscesi, ma vabbè…), escursionisti che si riposano in attesa di riprendere il cammino, altre persone che parlano e si rilassano all’ombra degli enormi pini, altre ancora impegnate in una sorta di surplace dove vince chi si alza per ultimo da tavola.
Ma è tempo di proseguire e bisogna rifocillarsi e il “vecio” in servizio in cucina mi propone panini con salame o coppa o pancetta (peccato che non c’è la nduja..) che non sono proprio il massimo per l’allenamento, ma sono fatti al momento e imbottiti come quelli di Poldo Sbaffini e costano 1 euro cadauno.
Durante la salita successiva incontro un gruppo di buffi gitanti dotati di armi finte e tenute mimetiche, la cui taglia mi ricorda più quella dei marescialli della mia mensa militare che non quelli degli incursori del Col Moschin, ma concludo che in fondo è meglio questo delle gare di burlesque e tutto sommato è una fortuna che i comunisti non pensino più di sfondare da est, perché con questi come riservisti non saremmo messi benissimo.
Raggiunta nuovamente la sommità del colle e ritrovati gli allegri gitanti, di colpo mi viene in mente il professore di matematica della Bocconi e quella volta che durante una lezione mi convocò alla lavagna per parlare della funzione traslata.
Mentre tra me e me pensavo: «Ma che c’entra il Professor Salsa ?» ricordo che il docente mi chiese di fare un esempio di un fenomeno rappresentato da una funzione traslata e la mia citazione di una glaciazione, dove l’escursione termica può rimanere invariata rispetto a prima della traslazione, ma, appunto massimo e minimo scendono, che so, di 40 gradi.
Ecco perché mi viene in mente la funzione traslata, perché i simpatici gitanti mi dimostrano come si possa convivere con la crisi, almeno dal punto di vista del tempo libero: il reddito disponibile è crollato e quindi siamo tornati alle gite fuori porta che animavano le domeniche del ceto medio negli anni ’60, quando avere la “600” e/o la “Lambretta” con cui fare qualche diecina (o anche meno) di km, permetteva al cittadino di “andare a prendere l’aria buona” e di godere degli scenari stupendi delle campagne circostanti senza spendere un patrimonio.
Magari il prossimo passo sarà quello di rendere Milano più vivibile, per i residenti e per i turisti, durante i weekend, una città che invece da decenni pare impostata sullo svuotamento compulsivo che si verifica ogni venerdì sera.