Che cosa è l’incertezza? Per molti di noi è esperienza di disagio dalla quale emanciparsi il prima possibile. Per altri è il punto di partenza di costruzioni atte a cogliere evidenze certe ed indubitabili.
Per John Maynard Keynes l’incertezza è il contesto nel quale l’esser umano pensa e agisce. Non l’imbarazzo della scelta tra pietanze all’ora di pranzo, e nemmeno l’ansia determinata dalla possibilità che venga estratto, su novanta, il numero che ho acquistato alla riffa.
Keynesiana è l’incertezza radicale. Quella connessa ai nostri limiti psicologici, fisici, mentali. L’incertezza che «solo di poco sotto la superficie» suscita in noi «vaghi timori panici e ugualmente vaghe e ingiustificate speranze».
Eppure, è proprio il “sostenere” l’incertezza che determina il senso di svolta, di critica e di decostruzione del pensiero keynesiano rispetto alla potente macchina neoclassica, al suo immaginario e alla sua modellistica. Così l’evidenza dell’insostenibilità dell’equilibrio, comunque e sempre raggiungibile, passa attraverso la decostruzione del modello della domanda e dell’offerta.
Alla madre di tutte le metafore, all’immagine economica più radicata nella coscienza collettiva contemporanea, vera e propria clavis universalis neoclassica, Keynes contrappone l’evidenza di un sistema in cui «data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessiva dipende dall’ammontare dell’investimento», la cui determinazione, che eccede dal modello di incrocio domanda e offerta, è individuata nell’ ambito di azione della politica monetaria, della propensione al risparmio e alla spesa e dalle “aspettative” sui futuri rendimenti dei beni capitali.
Il richiamo all’incertezza come dimensione costitutiva dell’essere umano attraverso il riferimento alla “psicologia della gente”, alle “aspettative”e agli “animal spirits” imprenditoriali, è una componente fondamentale del pensiero keynesiano che mi pare sottaciuta dalla vulgata keynesiana.
In tempi di crisi, si sa, la massima efficacia la si coglie nel “bisogna fare così” e soprattutto quando il “bisogna fare così” è complementare ad un “non quello che stanno facendo gli altri”.
In tempi di crisi la vulgata keynesiana ha buon gioco nel contenere “tutto” Keynes nell’auspicato intervento dello stato nella vita economica con funzioni di correzione degli andamenti del ciclo, di mantenimento del regime occupazionale e di stabilizzazione/incremento del reddito nazionale.
Non contesto la logica che sostiene il “moltiplicatore” ma il sostegno ad oltranza della domanda aggregata tramite l’azione sulle sue componenti mi pare la parte più meccanica del pensiero keynesiano e da un certo punto di vista la più “datata”.
Quando passo da Sesto San Giovanni tra i grandi impianti abbandonati delle ferriere Falck oppure quando dal viadotto della tangenziale osservo l’area un tempo occupata dalla Innocenti, non posso fare a meno di pensare che proprio quello era il sistema economico e di produzione di massimo effetto della “cura” keynesiana.
Nel mondo finanziarizzato in cui «le leve del potere non stanno più nell’erogazione del credito bancario, né nel deficit spending» e in cui «la variabile indipendente è il saggio di accumulazione da plusvalenze finanziarie [1]»quale può essere, la concreta efficacia di una applicazione scolastica e riduttiva della teoria keynesiana?
Non sono in grado di rispondere compiutamente, ma è come se alla teoria mancasse la terra sotto i piedi…
[1] Stefano Lucarelli, La finanziarizzazione come forma di biopotere, in Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra, Crisi della economia globale, Ombre Corte Uninomade, Verona 2009.