di Massimo Bertani
Molti di noi hanno imparato a contare con il denaro, e ancora oggi – probabilmente – molti scolari imparano a risolvere il problema di quel cartolaio che aveva acquistato 85 quaderni a 1,50 euro l’uno e del quale si vuole sapere quanto ha speso.
Il denaro parla il linguaggio semplice dei numeri. Anche in questo modo cela il suo essere un linguaggio a sua volta. E il suo celarsi avviene – direbbe Marx – nella forma dell’abbaglio [1] che ci colpisce quando lo scambiamo per una cosa e non per un rapporto sociale determinato.
Il denaro «come equivalente universale» è (anche, probabilmente) linguaggio. Michel Foucault [2] ne ricostruisce la storia a partire dalla perfetta corrispondenza tra il nome (il denaro), il suo referente materiale (l’oro) e la cose del mondo, descritta da Bernardo Davanzati [3]: «La natura ha fatto tutte le cose terrestri buone; la somma di queste, in virtù dell’ accordo concluso dagli uomini, vale tutto l’oro del mondo». E più avanti: «Vi sono sulla terra tanto oro, tante cose, tanti uomini, tanti bisogni; nella misura in cui ogni cosa soddisfa certi bisogni, il suo valore sarà di tante cose o di tanto oro».
Processo circolare, quello del denaro, dell’oro e delle cose che Foucault descrive con chiarezza: «il segno monetario non può definire il proprio valore di scambio, non può fondarsi in quanto contrassegno, che su una massa metallica la quale a sua volta definisce il proprio valore nell’ordine delle altra merci».
È occorso molto tempo per ribaltare questa impostazione, la più immediata, e comprendere che «non è il denaro ad essere prezioso in quanto d’oro (ma) l’oro ad essere prezioso in quanto denaro…».
Nel tempio del mercato, in nome del denaro si compie il miracolo della transustanziazione delle cose in merci. Il denaro pare nominare le cose, rimane però la domanda: che linguaggio è il denaro?
Luisa Muraro [4] ritiene che, nel mondo in cui sembra che «si possa scambiare tutto con tutto», «l’idea che il dicibile sia separabile da ogni contesto e universalmente traducibile, ci è resa come evidente dalla disponibilità di un equivalente universale, il denaro, e di una struttura simbolica, il mercato, dove qualsiasi cosa vi entri, perdute le sue caratteristiche peculiari, diventa merce di scambio».
L’analogo annullamento delle differenze qualitative e delle distanze spazio temporali ad opera del denaro non può essere effettuato dal linguaggio: «la prospettiva dell’equivalenza universale – sostiene la filosofa – è contraddetta dalla nostra esperienza di parlanti».
Sarebbe quindi la nostra «esperienza di parlanti» a confermare la tesi marxiana che giudica errato interpretare il denaro come un linguaggio in quanto: «le idee non vengono trasformate nel linguaggio, in modo tale che la loro particolarità venga dissolta e il loro carattere sociale esista accanto a esse nel linguaggio, come i prezzi accanto alle merci» [5].
A questo livello di complicazione caratterizzato da una diffusa produzione di dualismi (bene/merce, valore d’uso/valore di scambio, nome/prezzo, oggetto/rapporto sociale) convengo sul fatto che il denaro non solo non dice la cosa quale prodotto naturale caratterizzato da valore d’uso ma ne sia essenzialmente il dissolvente.
D’altra parte osservo che l’azione del denaro non termina con questo annullamento: sulle ceneri della cosa e del connesso valore d’uso si erge infatti il valore di scambio, da intendere come opera e rappresentazione proprio del denaro. In questo senso considerare il denaro come un linguaggio non mi pare un’eresia.
Marx immaginava una vetrina deserta, vuota, priva di merci in esposizione e piena di cartellini indicanti prezzi di non si sa cosa. Probabilmente da questa visione ha derivato – come correttamente indicato da Luisa Muraro – l’insostenibilità dell’analogia tra denaro e linguaggio.
Eppure quale massima espressione del valore di scambio il denaro in forma di prezzo parla e parla chiaro: indicare un maglione che costa 250 euro è una cosa diversa dall’indicare un maglione che ci terrà caldo nelle lunghe giornate invernali, ma è pur sempre un indicare, un rappresentare.
[1] L’«Abbagliante forma del denaro»: per Marx stadio finale di piena espressione del valore contenuto nel rapporto di scambio.
[2] Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli 1967
[3] Bernardo Davanzati, Lezione delle monete, 1582 citato da M. Foucault in op. cit
[4] Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, 1991 Editori Riuniti
[5] Karl Marx, Il denaro. Genesi e essenza, Editori Riuniti, 1990 citato da Luisa Muraro op.cit.