1.
Di che cosa muoiono gli uomini? Muoiono di inarginabili mal di testa, di gonfiori paradossali, di invertite transustanziazioni del sangue in acqua, di ulcere infinite, di assorbenti languori,cdi viscere infuocate, di scarnificanti pruriti, di tediose solitudini, di crepe nel cuore, di insostenibili nausee, di fissazioni paralizzanti, di regressioni ad una cattiva infanzia, di arti spezzati, di ossa in cenere, di mefitiche suppurazioni, di pezzi che divorano altri pezzi, di eccessivi funzionamenti, di nebbie impenetrabili, di buio improvviso, di tremori parossistici, di carni strappate, di addensamenti, di liquefazioni, di perduto orientamento…
Dall’ infinito catalogo delle offese, delle vessazioni e delle umiliazioni, a lui è stata riservata quella, forse, più auspicabile: l’infinita, avvolgente, stanchezza. La lenta discesa che impegna gli umani nell’ essere docili e quieti.
Gli uomini muoiono, e, rispetto a questo morire, le parole della scienza, il discorso della filosofia non dicono niente.
2.
Dove muoiono gli uomini? Muoiono nelle stanze della struttura pubblica, illuminate da tremolanti luci al neon, e le prese della corrente appiccicate con i cerotti, e i muri rosa pallido scrostati, e l’ostentazione della formica, e la statua della Madonna nel florilegio di fiori di plastica, e il linoleum logorato anche da lui «dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo … leggermente».
E i medici adolescenti con lo stetoscopio al collo, orgogliosi di mostrare ruolo e appartenenza, di simulare l’effetto del posto fisso. E gli infermieri dagli idiomi i più diversi a dire di un mondo rimpicciolito al punto di stare tutto in un reparto di ospedale. E gli inservienti concentrati nello scansare escrementi, catarri e urine e a quegli stessi escrementi, catarri e urine ricondotti.
Gli uomini muoiono in farraginose organizzazioni che, sembrerebbe, «con una minima scossa (…) poterle spingere da una parte» e farle fragorosamente crollare e che invece ritrovano una loro impensabile efficacia e un loro sconcertante punto di equilibrio.
E sul bordo di questi universi, a ridire che ancora di uomini si tratta, e non di altro, il medico che telefona per capire se hai capito. Lo stesso che, pur in un delirio di protocolli, di tabelle, di norme e di codici, trova il tempo.
Potremmo ritrarlo ma lo ha già ritratto una volta per tutte, cogliendone «l’espressione disillusa del nostro tempo», Vincent Van Gogh. Il suo dottore come il dottor Paul Gachet, è un uomo che non alza la voce, non ostenta medaglie e quando parla ti stringe le mani.
3.
Quando un morente tocca un oggetto lo trasforma, ne sancisce il passaggio dal regno dell’articolo indeterminato a quello dell’articolo determinato e ne delinea una esclusiva forma di possesso: una forchetta diviene la “sua” forchetta, un bicchiere il “suo” bicchiere…
Con oculata preveggenza si era impegnato nel cancellare più tracce possibili del suo transito. Ma nella casa deserta gli oggetti superstiti ne rivelano l’intima predisposizione all’ordine, alla catalogazione, al ricordo delle persone amate. Ne mostrano le limitate abitudini e le manie di consumo.
E proprio davanti alle scatole di tonno portoghese, alle bottiglie di olio che doveva essere solo di quella marca, ai quaderni zeppi di meticolose liste della spesa e di ordinate addizioni, alle scarpe riposte con cura, agli occhiali d’oro perfettamente allineati alla Parker riposta nella scatola di cartone, si compie il miracolo per cui «sono le cose / che pensano / ed hanno di te / sentimento / … / come assente rimpiangono te / sono le cose che prolungano te».
4.
Cosa pensano i morenti? Il loro pensare è come un vedere e il loro vedere come un pensare. Pensano e vedono l’essenziale. In questo percorso progressivamente ciò che non è importante viene omesso.
Nel percorso verso la nuda vita la prima omissione riguarda “il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose”: il denaro. Nel percorso verso la nuda vita si è spogliato di ciò che «ha spogliato il mondo intero, il mondo dell’uomo come la natura , del valore loro proprio». E avermi reso evidente questo passaggio è il dono, non l’eredità, che io scelgo tra quelli che lui mi ha voluto porgere.
Disturbato dall’arsura ascoltava con piacere, ed integrava con sue osservazioni, la mia descrizione delle caratteristiche dei più importanti aperitivi. Soprattutto ascoltava estasiato la descrizione del bicchiere di rabarbaro premuto su una montagna di ghiaccio tritato…
Afasico nelle ultime ore ha rinunciato a parlare ma, ad occhi chiusi, sicuramente vedeva e ricordava.
Dicono che nell’ora della nostra morte noi rivediamo in un istante lo svolgersi di tutta la nostra vita istante dopo istante: mi è sempre sembrata una prestazione meccanica e non consolante.
Io non saprò mai cosa lui abbia visto, pensato, ricordato in quel momento. Apro il libro a pagina nove e leggo l’incipit:
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio».
E adesso è bene tacere.
Ti sia lieve la terra.