9/1/2014 – Nell’inferno del disvalore

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Vigilia di Natale, ore diciannove e quarantacinque. Ho pensato a lungo se intraprendere  questo viaggio. Poi, l’insistenza di Goethe ha prevalso.  D’altra parte meglio Goethe di Wittgenstein che  è lunatico e a volte veramente incomprensibile, non tanto per quello che dice ma per quello che fa: piange per i tradimenti commessi, prende a schiaffi i bambini e dispera continuamente della sua stupidità. No, Goethe conosce la vita, ed è più incline al riso che al pianto.

L’appuntamento è nell’inferno del disvalore, cioè nel paradiso, che poi fa lo stesso, in cui  la vetrinizzazione del mondo ne determina il senso, in cui il dogma del profitto si emancipa dai ragionevoli dubbi ed il buon senso si umilia  davanti alle pretese dell’esclusivo.

In questo giorno e a questa ora l’inferno è silenzioso e deserto. I negozi chiusi. Solo le vetrine, inesauste sirene, proseguono, davanti a nessuno, il loro discorso. La loro luce si spande nel buio come la sinistra  luce di una televisione in bianco e nero nella buia stanza in cui lo spettatore si è da tempo addormentato.

Io e Goethe camminiamo e ascoltiamo i loro discorsi che sono i discorsi del tempo di crisi in cui lo scandalo, il coraggio e l’irrisione sono ricomposti in un florilegio di argute citazioni, garbate provocazioni e  giochi di parole.

In una vetrina l’ovovia, i cui abitacoli sono foderati di candida pelliccia, percorre spazi siderali e congiunge tra loro luminosi pianeti. Trasporta sciatori astronauti, vestiti con tute termiche a disegni scozzesi, che, durante lo spostamento, trascorrono il tempo guardando montagne innevate su teleschermi posti all’esterno dell’abitacolo.

Il tenutario del brand, da poco divenuto miliardario, ci spiega la sua visione del mondo: « …città dove i turisti, dopo una potentissima dose di arte, cultura, natura, storia, potrebbero, perché no, fare un po’ di shopping.»

Goethe, dimenticando che per i condannati  dell’inferno del disvalore è impossibile accedere al nostro mondo, invita il tenutario del brand ad uscire dalla vetrina.

È tutto inutile. Il tenutario del brand accucciato e spaventato dal calore che emana il corpo di Goethe ripete dal fondo della vetrina  la sua ricetta «…potentissima dose… e perché no un po’ di shopping».


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Invito Goethe a lasciarlo perdere e a riflettere sulla condanna inflitta a questa povera gente: l’ingannevole momentanea ricchezza  a coprire l’eterna povertà del pensiero.

Più avanti un altro, seduto su un grande  baule di pelle pregiata, dice:

«A noi l’oca piace spennata e ingozzata e tritata e insaccata e abbrustolita. E non possiamo non ammettere che tali pratiche suscitino in noi rincrescimento. È per questo che all’oca riserviamo un posto d’onore nel nostro mausoleo del valore. Certo, invetriniamo solo oche di plastica dall’occhio furbetto, affidabili e non starnazzanti. In questo modo, dopo aver pagato pegno attraverso il simulacro, possiamo continuare a ingozzare, e a spennare, e a tritare, e a insaccare e ad abbrustolire le oche, quelle vere».

In una vetrina una grande fotografia attira la mia attenzione: due mani, disposte  a coppa, porgono alla mia vista un pesante grumo di terra grassa. Il tenutario del brand dice che la terra fotografata è più vera della terra vera e che la fotografia deve servirci a ricordare i tempi in cui gli esseri umani erano pressati tra terra e cielo. Secondo lui in questo nuovo mondo il prezzo è l’unica cosa vera. Il prezzo che richiama i sognatori all’evidenza dei fatti. Il  prezzo rispetto al quale  la terra è un’entità astratta.

Abbracciati  in un portone io e Goethe ci addormentiamo e sogniamo. Io sogno una vetrina in cui la verità del prezzo vince l’ipocrisia della merce. Una vetrina in cui i prezzi, da soli, in perfetta autoreferenzialità indicano solo sé stessi senza alcun riferimento a merce alcuna.

Goethe  sogna  un sogno complesso:  una popolazione stremata da troppe brioches chiede  pane ai propri governanti. Questi, dimentichi del segreto del pane, porgono al popolo  la  riproduzione  di  un pane rinvenuto anni or sono  in una mensa scolastica abbandonata. Il popolo  sembra gradire  e continua a ruminare dolciastre e fragranti brioches.

Al risveglio ci troviamo di fronte ad un trono su cui due tenutari di brand hanno posato un paio di scarpe riservate a ignoti compratori. Sostengono essere, questo, realismo. Io ne convengo. Goethe invece si scaglia contro la vetrina urlando di voler ascoltare una volta per tutte la verità.

E nell’ultima vetrina all’estremo confine dell’inferno i tenutari dei brand la verita gliela porgono, in milioni di euro: Luxottica 6.700, Ferragamo 4.636, Tods 3.682, Moncler 3.650, Finmeccanica 3.145…

Nell’ultima vetrina all’estremo confine dell’inferno del disvalore tutti i tenutari dei brand confermano quello che intimamente io e Goethe sappiamo da tempo. Loro, che sembrano sfrontati e sprovveduti, sono i consapevoli  che  contabilizzano i propri  misfatti. Io e Goethe alla fin fine siamo solo gli stupefatti viaggiatori che confidano nell’implosione dell’inferno.

Alla porta dell’inferno una ritardataria turista ci chiede il favore di fotografarla. La fotografia testimonierà che lei è stata qui, proprio qui. Nessuno saprà mai che la fotografia è  stata scattata da Goethe.

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