«Che cosa distingue migliaia di anni di storia trascorsi da quella che pensiamo essere l’età moderna? La risposta passa dai progressi della scienza, della tecnologia, del capitalismo e della democrazia. Il lontano passato è costellato di straordinari scienziati, matematici, inventori, tecnologi e pensatori politici. Centinaia di anni prima della nascita di Cristo il cielo era stato mappato, era stata edificata la grande biblioteca di Alessandria ed immaginata la geometria euclidea. La domanda di innovazione tecnologica a fini bellici era insaziabile quanto lo è oggi. Carbone, petrolio, ferro e rame erano a disposizione dell’umanità da millenni, ed i viaggi e le comunicazioni avevano già segnato la nascita della civilizzazione. L’idea rivoluzionaria è che a definire il confine tra la modernità e il passato sia la padronanza del rischio, l’idea che il futuro sia qualcosa in più di un tiro di dadi e uomini e donne non siano passivi di fronte alla natura».
Peter L. Bernstein, Against the Gods
Così Peter L. Bernstein nella sua notevole storia del rischio pubblicata alla fine del XXI secolo. Personalmente ritengo che la sua idea che una maggior padronanza del rischio possa segnare il discrimine tra l’età moderna e la storia mi trova d’accordo. Quel che è certo è che tale padronanza è strettamente connessa alla capacità di calcolo e tale capacità dal 1965 ad oggi è raddoppiata ogni anno, in ottemperanza alla cosiddetta “Legge di Moore”, mai contraddetta. Il che significa che la capacità di calcolo che un tempo stava in un’intera stanza oggi sta sul palmo di una nostra mano: lo smatphone. Entro il 2045 un solo computer potrebbe avere la capacità di elaborazione pari a quella dell’intera umanità.
Con una tale capacità di calcolo e l’attuale smisurata disponibilità di dati (big data) prevedere il futuro — e dunque ridurre il rischio — non dovrebbe essere impossibile, e di fatti non lo è. In teoria. Perché di fatto l’imprevedibilità sociale, economica e politica del nostro mondo non è per nulla diminuita, tutt’altro. Questo perché? Perché i sistemi informatici, i sistemi digitali, rapresentano essi stessi una colossale variabile da calcolare. Gli eventi che il “real time” interconnesso a livello mondiale può produrre sono pressoché infiniti e – ed è la cosa su cui possiamo più e meglio intervenire – sono vulnerabili: è quello che viene chiamato “rischio digitale” o “cyber risk” o “rischio informatico”.
Saper gestire il rischio informatico equivale, in sostanza, oggi, a poter effettivamente mitigare l’impatto dell’incertezza sulla propria vita.
Ciò vale in generale e forse in grado ancora maggiore sulle realtà aziendali. Mi interesso di economia e di impresa da ormai più di vent’anni e so che purtroppo il tema della sicurezza digitale non è all’ordine del giorno o meglio, non lo è fino a quando non si verifica l’incidente: a quel punto l’urgenza determina una grossa spesa e spesso nemmeno così si riesce a recuperare le perdite.
Per questa ragione ho deciso di dedicare attenzione a questa tematica, rendendomi disponobile a chiunque voglia approfondire.
Organizzerò eventi sul digitale a breve, in presenza o, qualora il covid non lo consentisse, a distanza. Di ogni iniziativa vi terrò informati.
Chiudo con una punta di orgoglio cittadino, citando una seconda volta il bel libro di Bernstein.
«In età Rinascimentale, comunque, erano tutti attratti da indagini, sperimentazioni e dimostrazioni: esploratori, scienziati, pittori, architetti. Era del tutto prevedibile che prima o poi qualcuno che avesse lanciato i dadi si sarebbe fatto delle domande circa le regolarità degli esiti. Questo qualcuno fu un medico cinquecentesco chiamato Gerolamo Cardano». Il pavese Girolamo Cardano, aggiungo io.