Quarta puntata. L’antropologia della porta in Plauto.

Dopo aver passato in rassegna le quattro principali occorrenze indicanti la “porta” nella lingua latina, possiamo procedere all’analisi di un particolare processo che investe la porta stessa e al quale presteremo un occhio per così dire “antropologico”: la sua antropomorfizzazione. Necessaria, però, una premessa. L’antropomorfizzazione della porta racchiude un topos assai caro alla letteratura classica e di cui Eduard Fraenkel ha dato un ritratto esemplare: il παρακλαυσίθυρον (lett. “davanti alla porta chiusa”).

Si tratta di un motivo letterario tipico dell’elegia d’amore classica, ripreso in seguito anche dalla poesia provenzale. Consiste fondamentalmente nel ritrarre l’amante (un exclusus amator, che può a volte convergere con il poeta stesso) in veglia notturna dinanzi la porta chiusa della donna che egli desidera. Questo luogo poetico viene accompagnato sovente da espedienti narrativi, quali il dialogo con la porta che non è intenzionata ad aprirsi, come attesta Catullo, o il monologo della porta stessa, come leggiamo in Properzio (entrambi i casi verranno esaminati successivamente). Anche Ovidio, per citare un altro celebre esempio, compone un paraclausithyron negli Amores, in cui interloquisce con uno schiavo messo a guardia della porta (ianitor); ma si attesta anche nelle Metamorfosi, in relazione al mito di Piramo e Tisbe.

Un noto esempio di παρακλαυσίθυρον compare nel Curculio di Tito Maccio Plauto. Il topos fa da sfondo al processo che intendiamo qui analizzare: l’antropomorfizzazione della porta; i processi, ossia, attraverso i quali la porta si “fa” uomo e quali i suoi connotati antropologici. Trascriviamo (con qualche salto) i brani indicati a evidenziare il processo, contenuti nei primi 167 versi della commedia plautina.

I.i

Palinvrvs Quo ted hoc noctis dicam proficisci foras

Cum istoc ornatu cumque hac pompa, Phaedrome?

Phaedromvs Quo Venus Cupidoque imperat, suadet Amor:

si media nox est sive est prima vespera,

si status condictus cum hoste inercedit dies,                                                                                        5

tamen est eundum quo imperant ingratiis.

Pal. At tandem, tandem++Phaed. Tandem es odiosus mihi.

Pal. Istuc quidem nec bellum est nec memorabile:

tute tibi puer es, lautus luces cereum.

Phaed. Egon apicularum congestum opera non feram,                                                                     10

Ex dulci oriundum melculo dulci meo?

Pal. Nam quo te dicam ego ire? Phaed. Si tu me roges,

dicam ut scias. Pal. Si rogitem, quid respondeas?

Phaed. Hoc Aesculapi fanum est. Pal. Plus iam anno scio.

Phaed. Huic proxumum illud ostiumst oculissimum.                                                                        15

Salve, valuistin? Pal. Ostium occlusissimum,

caruitne febris te heri vel nudiustertius

et heri cenavistine? Phaed. Deridesne me?

Pal. Quid tu ergo, insane, rogitas valeatne ostium?

Phaed. Bellissimum hercle vidi et taciturnissimum,                                                                           20

Numquam ullum verbum muttit: cum aperitur tacet,

cum illa noctu clanculum ad me exit, tacet.

Pal. Numquid tu quod te aut genere indignum sit tuo

Facis aut inceptas facinus facere, Phaedrome?

Num tu pudicae cuipiam insidias locas                                                                                              25

Aut quam pudicam esse oportet? Phaed. Nemini,

nec me ille sirit Iuppiter. Pal. Ego item volo.

…..

Phaed. Lenonis hae sunt aedes. Pal. Male istis evenat.

Phaed. Qui? Pal. Quia scelestam servitutem serviunt.                                                                      40

Phaed. Obloquere. Pal. Fiat maxume. Phaed. Etiam taces?

Pal. Nempe obloqui me iusseras. Phaed. At nunc veto.

Sed ita uti occepi dicere: ei ancillula est.

Pal. Nempe huic lenoni qui hic habitat? Phaed. Recte tenes.

Pal. Minus formidabo, ne excidat. Phaed. Odiosus es.                                                                     45

Eam volt meretricem facere. Ea me deperit,

ego autem cum illa facere nolo mutuom.

Pal. Quid ita? Phaed. Quia proprium facio: amo pariter simul.

Pal. Malus clandestinus est amor, damnumst merum.

…..

Phaed. Cedo, puere, sinum. Pal. Quid facturu’s? Phaed. Iam scies.

Anus hic solet cubitare custos ianitrix,

nomen Leaenae est, multibiba atque merobiba.

Pal. Quasi tu lagoenam dicas, ubi vinum Chium

Solet esse. Phaed. Quid opust verbis? Vinosissima est;

eaque extemplo ubi vino has conspersi fores,                                                                                     80

de odore adesse me scit, aperit ilico.

Pal. Eine hic cum vino sinus fertur? Phaed. Nisi nevis.

Pal. Nolo hercle, nam istunc qui fert afflictum velim:

ego nobis afferi censui. Phaed. Quin tu taces?

Si quid super illi fuerit, id nobis sat est.                                                                                               85

Pal. Quisnam istic fluviust. Quem non recipiat mare?

Phaed. Sequere hac. Palinure. Me ad fores, fi mi obsequens.

Pal. Ita faciam. Phaed. Agite bibite, festivae fores;

potate, fite mihi volentes propitiae.

Pal. Voltisne olivas [aut] pulpamentum [aut] caparrim?

Phaed. Exsuscitate vostram huc custodem mihi.

Pal. Profundis vinum: quae te res agitant? Phaed. Sine.

Viden ut aperiuntur aedes festivissumae?

Num muttit cardo? Est lepidus. Pal. Quin das savium?

Phaed. Tace, occultemus lumen et vocem. Pal. Licet.                                                                        95



…..

Phaed. Quid si adeam ad fores atque occentem? Pal. Si lubet, neque veto neque iubeo,                    145

quando ego te video immutatis moribus esse, ere, atque ingenio.

Phaed. Pessuli, heus pessuli, vos saluto lubens,

vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro,

gerite amanti mihi morem, amoenissumi,

fite causa mea ludii barbari,                                                                                                                150

sussilite, obsecro, et mittite istanc foras,

quae mihi misero amanti ebibit sanguinem.

Hoc vide ut dormiunt pessuli pessumi

Nec mea gratia commovent se ocius.

Re spicio, nihil meam vos gratiam facere.                                                                                           155

St tace, tace. Pal. Taceo hercle equidem. Phaed. Sentio sonitum

Tandem edepol mihi morigeri pessuli fiunt.

La trama risponde allo schema classico delle commedie plautine. Il giovane Fedromo deve sottrarre la meretrice Planesio di cui è innamorato al lenone che la possiede (di nome Cappadoce) e, insieme, vincere la concorrenza di un giovane rivale (il soldato Terapontigono). A escogitare l’inganno e condurre il giovane alla vittoria è il suo parassita, Gorgoglione (Curculio, dal nome di un vorace parassita del grano). La meretrice è riconosciuta non solo come nata libera, ma anche come sorella del soldato: per le nozze tra lei e Fedromo, dunque, non c’è più nessun ostacolo.

Come osserva Mazzoli, la prima scena del Curculio è il luogo in cui Plauto “spinge più avanti che in alcun altro luogo la ‘trasformazione’ della porta da strumento inanimato a vivente coprotagonista”. Prendiamo le mosse, innanzitutto, dal contesto. È notte. Dinanzi la casa del lenone che rinchiude l’amata Planesio sta il giovane adulescens Fedromo accompagnato dal proprio servo, l’astuto e ‘pragmatico’ Palinuro. I due si scambiano alcune serrate e divertenti battute, nelle quali il giovane dichiara la propria condizione di servo d’Amore (Quo Venus Cupidoque imperat, suadet Amor v.3) e Palinuro, canzonandolo, sbeffeggia lo status del padroncino (Tute tibi puer es, lautus luces cereum v.9).  Ma ecco che, al v. 15, fa la sua comparsa lo strumento attraverso il quale può essere reso possibile l’incontro con il melculo dolci (ossia l’amata): la porta. Coerentemente a quanto detto in precedenza, non a caso Plauto adopera il sostantivo ostium. Il Sarsinate, infatti, altro non fa che mettere in luce il carattere sostanzialmente pratico e materiale dell’‘uscio’. Come vedremo, sebbene connotata di caratteristiche umane, la porta conserva le proprie finalità essenzialmente strumentali. È solo tramite l’ostium che l’amante potrà essere in grado di raggiungere la donna desiderata. L’opposizione strumento materiale/sua antropomorfizzazione, quindi, contribuisce enormemente all’incremento dell’effetto comico.

Fondamentali sono i versi 15-18:

Phaed. Huic proxumum illud ostiumst oculissimum.

Salve, valuistin? Pal. Ostium occlusissimum,

caruitne febris te heri vel nudiustertius

et heri cenavistine?

«Huic proximum», osserva Fedromo, «illud ostiumst oculusissimum» – «c’è una porta bellissima alla vista degli occhi»; il primo connotato “antropomorfico” della porta è, per l’appunto, la vista. Si tratta di una porta che appare bella, come bella può apparire una donna (in questo caso la donna: si tratta di Planesio). Nella lingua latina, l’aggettivo oculusissimum indentifica solitamente un essere umano; come una donna, appariscente per la sua avvenenza. In questa metamorfosi, la porta va ad assumere i connotati fisici che si credono appartenere all’amata, situata oltre la porta stessa. La metamorfosi continua in maniera indefessa tanto da spingere l’adulescens a chiedere all’oggetto «Salve, valuistin?» quasi avesse di fronte una persona vera. Il “Salve”, nella civiltà latina, non era riservato a “cittadini”, o comunque a individui “onorevoli”. La folle e sognante dichiarazione di Fedromo va a cozzare con il pragmatismo del servus. Questi canzona il padroncino, opponendo all’ostium oculusissimum (si noti la sapienza fonica dell’allitterazione) un ostium occlusissimum “porta assai chiusa”. La derisione si chiude con un’assurda richiesta sullo stato di salute e, in generale, sulle condizioni “fisiche” dell’oggetto-porta.

Il dialogo prosegue a ritmo serrato. Dopo due sole battute compare un’altra capitale caratteristica ‘antropomorfica’ della porta: la parola. O, per essere precisi, la potenzialità del parlare, dell’emettere suono:


Phaed. Bellissimum hercle vidi et taciturnissimum,

Numquam ullum verbum muttit: cum aperitur tacet,

cum illa noctu clanculum ad me exit, tacet.

L’aggettivo taciturnissimum è chiarito nel verso successivo: “non emette mai nessuna parola”. La porta non soltanto si configura come creatura dotata di voce, ma, addirittura, anche di facoltà decisionale. Essa, in sostanza, decide se parlare o no, indossando i panni, di conseguenza, di complice degli amanti. L’antropomorfizzazione si fa sempre più manifesta: da strumento, la porta-oggetto diviene complice fidato (tanto da tacere gli incontri segreti degli stessi; è “omertosa”). Catullo porterà agli estremi, come vedremo, il processo qui abbozzato.

Tuttavia, per oltrepassare l’impervia soglia e raggiungere l’amata occorre uno stratagemma. Fedromo architetta l’escamotage di versare del vino ai piedi della porta, in modo da far uscire la vecchia portinaia Leena (definita vinosissima) e, quindi, consentire l’ingresso. È necessaria una precisazione. Fedromo non versa semplicemente del vino sulla soglia, ma, in realtà, estingue la sete dei fores della porta, ossia dei suoi battenti. Ecco apparire un’altra caratteristica “sensoriale” dell’oggetto: il gusto. La porta assume le sembianze di una “bevitrice”: ingerendo lei stessa il vino, richiamerà a sua volta l’attenzione (o, semplicemente, l’olfatto) della ianitrix Leena. Esemplare e letterariamente elegante è la sollecitazione lirica di Fedromo nei confronti dei fores :

Phaed. Agite bibite, festivae fores;

potate, fite mihi volentes propitiae.

Il linguaggio, oseremmo dire, “militare” dell’esortazione dell’adulescens, sottolinea ulteriormente il carattere non solo strumentale ma, anche ai fini della vicenda, funzionale: i battenti della porta, come fedeli servitori, rivestono l’incarico di rendere propizia la vecchia e favorire l’incontro. «Exsuscitate vostram huc custodem mihi», esclama infine il giovane innamorato, con un tono commisto di preghiera e autorità.

Alea iacta est: l’odore di vino sedurrà la voglia insaziabile della vecchia, che favorirà l’incontro dei due. L’ultima caratteristica sensoriale che va a completare la trasformazione “umana” dell’oggetto-porta è, com’è facile immaginare, l’udito. La porta ascolta e in un secondo momento asseconda la serenata che Fedromo intrattiene (lo immaginiamo inginocchiato), dando vita al noto esempio di παρακλαυσίθυρον che abbiamo in precedenza citato. Il passo è talmente incantevole che ci spinge a citarlo per intero:

Pessuli, heus pessuli, vos saluto lubens,

vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro,

gerite amanti mihi morem, amoenissumi,

fite causa mea ludii barbari,

sussilite, obsecro, et mittite istanc foras,

quae mihi misero amanti ebibit sanguinem.

L’antropomorfizzazione è definitivamente compiuta. I pessuli sono amici preziosi, indispensabili alla buona riuscita dell’incontro. Sono degli esseri dotati di caratteristiche autonome, fisiche e mentali. Sono degli esseri viventi. Tanto vivi da avere la possibilità di “ballare all’italiana” (ludii barbari), tanto vivi da garantire il passaggio all’amata (mittite istanc foras), tanto vivi da prestare ascolto alle preghiere del giovane; e finalmente favorire, sebbene in un secondo momento, l’incontro dei due giovani innamorati.

Sintetizziamo, in conclusione, i connotati antropomorfici dell’ostium, che all’interno della vicenda si riconoscono, mettendoli a confronto ai riferimenti testuali:

Connotato antropomorfico

Riferimento testuale

Bellezza esteriore

Phaed. Huic proxumum illud ostiumst oculissimum. Salve valuistin?

Capacità di tacere

Phaed. (…) vidi et taciturnissimum,                                                                          Numquam ullum verbum muttit: cum aperitur tacet,

cum illa noctu clanculum ad me exit, tacet.

Gusto

Phaed. Agite bibite, festivae fores;

potate, fite mihi volentes propitiae.

Capacità di volere

Phaed. Exsuscitate vostram huc custodem mihi.

(…)Phaed. Sine.

Viden ut aperiuntur aedes festivissumae?

Facoltà di udito/di ascolto

Phaed. Pessuli, heus pessuli, vos saluto lubens,

vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro,

gerite amanti mihi morem, amoenissumi,

fite causa mea ludii barbari,

sussilite, obsecro, et mittite istanc foras (…)

Capacità di assecondare e obbedire

Phaed. Sentio sonitum

Tandem edepol mihi morigeri pessuli fiunt.

Che ve ne pare? Ci sentiamo la prossima volta. Con Gaio Valerio, però.

Lorenzo Dell’Oso

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