Don Giovanni

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Don Giovanni, titano gaddiano

Titolano i giornali dopo la prima scaligera dell’anno 2011 ab Incarnatione Domini nostri Iesu Christi: «Milano applaude la sobrietà». Peccato che ad essere andata in scena sia stata la dismisura.

Ma lo sapranno le gaddiane sciure dalle «bacche di perle sui seni burrosi della seconda giovinezza» che affollano il teatro? Forse, proprio saperlo, no, ma presentirlo, in certo qual modo, sì. Perché dismisura è Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni: smodatezza, titanismo puro. Davanti alla finitezza del mondo, reagire con l’infinitezza della volizione. La blasfemia più grande e al contempo comprensibile: è il non voler morire. Ma è anche una cosa in più: provarci.

Esiodo, Teogonia: «E il padre, Urano grande, chiamava Titani i suoi figli ch’ei generò: distinti li volle d’un nome d’oltraggio, perché, ligi ad empiezza, compiuto un immane misfatto avevano essi; e il fio dovrebbero un giorno pagarne». Quel fio è un’indomita volontà di ribellione al padre: «E quanti erano nati terribili figli d’Urano e della Terra, tanti fatti erano segno, nascendo, del padre loro all’odio: ché, come nascevano, tutti li nascondeva giù nei baratri bui della Terra, non li lasciava a luce venire».

Crono evira il padre Urano, ed è a sua volta avvelenato e imprigionato da suo figlio Zeus. Ma che fa Crono, il tempo, per parte sua, dei figli? Li divora. Li mette al mondo e poi li lascia dissolvere, elidere, annichilire dalle sue tenebrose viscere fatte di secondi, di minuti ed ore. Come non pensare alle fauci dell’Orco del bosco di Bomarzo e a quella scritta: «Ogni pensiero vola»?

Ma torniamo a Don Giovanni, lo “scellerato”, il “barbaro”, come lo chiama la perdutamente innamorata Donna Elvira. E il barbaro è lì, che la ascolta, e sussura al servo Leporello, pur di fermarla: «Sì, sì, dille pur tutto».

Ed inizia il rosario pagano, il catalogo, quel che vale l’Inferno: « Madamina, il catalogo è questo/Delle belle che amò il padron mio;/un catalogo egli è che ho fatt’io;/Osservate, leggete con me./In Italia seicento e quaranta;/In Almagna duecento e trentuna;/Cento in Francia, in Turchia novantuna;/Ma in Ispagna son già mille e tre».

Eccola lì, la titanica dismisura. Se la finitezza è nel numero non resta che perseguir l’innumerabile. E se ogni umana cosa è numerabile lo è per via di pensiero e dunque si avrà da esser solo azione: «L’azione è tutto» dice il Faust di Goethe. Ed è questo che pensa anche el burlador, l’ingannatore: ma chi vuole ingannare non sono in ultima istanza le mille più o meno fantomatiche sedotte ma è il padre loro, che è poi il padre suo e di tutte le cose: Crono.

Di Don Giovanni, Giovanni Macchia, in Vita, avventure e morte di Don Giovanni, scrisse una cosa folgorante, scrisse che il suo tratto caratteristico è «Una gioia travolgente come pienezza e felicità di vivere: e la gioia, prima ancora del piacere, la burla prima del senso».


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La scena finale, rivelatrice: “lo scellerato” è seduto dinanzi alla tavola imbandita. Entra il Convitato di pietra, la Morte. Lo diremo che il nostro non scappa? La Statua: «Don Giovanni, a cenar teco/M’invitasti e son venuto».

E Don Giovanni, il gran simulatore, colui che in vita sua da sempre aveva simulato tutto, nell’ora della verità non simula più nulla. Nessuna vanteria, nessuna smargiassata: «Non l’avrei giammai creduto». L’ammissione di uno scacco, della sua, della nostra, irrimediabile, limitatezza. Ma qui ha lo scarto del cuore. E nel dire la cosa più pacata e misurata che dir si possa, dice anche la più coraggiosa, la più nobile e diviene Über-Mensch per davvero, che non è “superuomo” ma “oltre uomo”. E dice semplicemente: «Ma farò quel che potrò». Che poi è nulla. Ma è il dirlo, e il dirlo con voce ferma, a far la differenza.

A presto.

Edoardo Varini

(8/12/2011)

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