La genesi dell’intellettuale del mondo nuovo – Terza puntata

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La consapevolezza della mise en roman dell’opera classica: il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure 

 

Salemon nos enseigne e dit,

E sil list om en son escrit,

Que nus ne deit son sen celer,

Ainz le deit om si demostrer

Que 1’om i ait pro e honor,                 5

Qu’ensi firent li ancessor.

Se cil qui troverent les parz

E les granz livres des set arz,

Des philosophes les traitiez,

Dont toz li monz est enseigniez,          10

Se fussent teü, veirement

Vesquist li siegles folement:

Come bestes eüssons vie;

Que fust saveirs ne que folie

Ne seüssons sol esguarder,                15

Ne l’un de l’autre desevrer.

Remembré seront a toz tens

E coneü par lor granz sens,

Quar sciënce que est teüe

Est tost obliëe e perdue.                  20

Qui set e n’enseigne o ne dit

Ne puet muër ne s’entroblit;

E sciënce qu’est bien oie

Germe e florist e frutefie.

Qui vueut saveir e qui entent,           25

Sacheiz de mieuz l’en est sovent.

De bien ne puet nus trop oir

Ne trop saveir ne retenir;

Ne nus ne se deit atargier

De bien faire ne d’enseignier;            30

E qui plus set, e plus deit faire :

De ço ne se deit nus retraire.

E por ço me vueil travaillier

En une estoire comencier,

Que de latin, ou jo la truis,               35

Se j’ai le sen e se jo puis,

La voudrai si en romanz metre

Que cil qui n’entendent la letre

Se puissent deduire el romanz:

Mout est l’estoire riche e granz          40

E de grant uevre et de grant fait.

En maint sen avra l’om retrait,

Saveir com Troie fu perie.

Mais la verté est poi oie.

 

Se il Roman de Thèbes trovava il suo modello classico nella Tebaide di Stazio, il Roman de Troie del chierico francese Benoît de Sainte-Maure, sebbene basato (anche se non fedelmente) su due testi latini di Darete Frigio e di Ditti Cretese, si ispira ad opere ancor più ambiziose come l’Iliade di Omero e Le Argonautiche di Apollonio Rodio.

Gli anni di composizione sono i medesimi del Roman de Thèbes (il cosiddetto decennio dei romanzi antichi, 1155-1165); e, non a caso, appaiono numerosi gli elementi in comune che il prologo del Roman de Troie intrattiene con quello del Roman de Thèbes. Primo tra tutti, l’elemento della “doverosità” della diffusione dell’opera letteraria; il dovere e l’esigenza della divulgazione.

Costituisce, infatti, dovere inderogabile dell’intellettuale il non-tacere ciò che è degno di essere ricordato (si rievoca il ruolo di “traghettatore di conoscenza” di cui si parlava in precedenza). Questo principio, d’altro canto, è contraddistinto anche da una componente essenzialmente “sacrale”: è il già citato Salomone a “insegnare” che non bisogna celare ciò che non è opportuno che venga celato. Ma a quale scopo? Quali sarebbero i fini di questo non-tacere? L’autore si dimostra chiaro nel fornire la risposta: «pro e honor»; letteralmente vantaggio (o profitto) e onore. Il supremo “vantaggio” risiede, dunque, nell’essere ricordato; e nell’ottenere onore dal ricordo stesso.

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All’interno del testo, i topoi del ricordo e del non-tacere vengono superbamente resi da binomi ossimorici quali udire/non-udire, vedere/non-vedere, ricordare/dimenticare. E il loro utilizzo dona al testo, tra le altre qualità, una bellezza stilistica di prim’ordine. Tuttavia, a voler essere più attenti, i punti in comune con il Roman de Thèbes tendono a sparire verso il termine della composizione; per la precisione dal v. 33 in avanti. In questo punto, infatti, Benoit porta alla luce un elemento ulteriore della consapevolezza di sé; una componente non sconosciuta, ma sicuramente non rimarcata con la dovuta attenzione né da Alberico né dall’autore del Roman de Thèbes: il significato della mise en roman dell’antichità. L’attenzione alla trasposizione linguistica è direttamente proporzionale a quella componente sociale insita nella morfologia dell’intellettuale di cui si è avuto modo di parlare in precedenza. Benoit lo scrive esplicitamente: «La voudrai si en romanz metre/ Que cil qui n’entendent la letre/ Se puissent deduire el romanz».

La “romanizzazione” del testo classico coincide con l’esigenza, da parte dei selezionati fruitori (che, tra l’altro, sono in grado di intendere il latino, come si legge nel v.38), di “deduire el romanz”, ovvero di godere, di fruire delle narrazione trattata. A questo punto, però, incombe una domanda. Se la lingua romanza è adatta a far sì che gli utenti godano dell’opera stessa, come spiegare la “vertè” del verso 44?

L’autore non avrebbe potuto impiegare vocaboli come “storia”, “narrazione”, “vicenda”? Perché la “verità”? E poi, occorre chiedersi, quale verità? La verità storica, poetica, metastorica, metapoetica? O, forse, non sarebbe azzardato ipotizzare che Benoit, tra le righe, inizi già ad assegnare alla lingua volgare quella rilevanza che ad essa, due secoli dopo, concessero gli umanisti e i rinascimentali? «La verità sarà udita in seguito», è questa la traduzione del verso.

La lingua delegata a “svelare” la verità potrebbe essere già riconosciuta nel volgare? Quale chiave di lettura impiegare? Il dubbio permane. Una cosa, tuttavia, è certa: l’intellettuale Benoît de Sainte-Maure si presenta al suo pubblico, al pari di Alberico e dell’autore del Roman de Thèbes, non solo come custode di un “sapere che germoglia” («E science che qu’est bien oie/germe e florist e frutefie»), di una scienza che non deve essere taciuta. Lo contraddistingue anche, a differenza dei predecessori, un’altra tipologia di consapevolezza, che non investe tanto se stesso, quanto le proprie scelte: in questo caso, la scelta linguistica. Dunque, la scelta di un particolare mezzo comunicativo. La scelta suprema della lingua, in conclusione, coniuga un intento comunicativo, è possibile affermare, altrettanto supremo. E, ci si potrebbe domandare, che cosa esiste mai di più eccelso (o supremo) della ‘”verità”, in qualunque senso essa si voglia intendere?

Sintetizziamo i risultati cui siamo giunti in relazione al Roman de Troie:

 

Benoit de Sainte-Maure, Roman de Troie

Qualità, elementi e valori dell’intellettuale

Riferimento testuale

 

 

Dovere ed esigenza della diffusione

Salemon nos enseigne e dit,/E sil list om en son escrit, /Que nus ne deit son sen celer, /Ainz le deit om si demostrer /Que 1’om i ait pro e honor, /Qu’ensi firent li ancessor.

 

E qui plus set, e plus deit faire

Ruolo di traghettatore di conoscenza nei confronti dei contemporanei

Qui set e n’enseigne o ne dit /Ne puet muër ne s’entroblit; /E sciënce qu’est bien oie /Germe e florist e frutefie. /Qui vueut saveir e qui entent/ Sacheiz de mieuz l’en est sovent.

La fama e il ricordo

Que 1’om i ait pro e honor

Remembré seront a toz tens/E coneü par lor granz sens, /Quar sciënce que est teüe /Est tost obliëe e perdue.

Consapevolezza della mise en roman dell’opera classica

Que de latin, ou jo la truis,/ Se j’ai le sen e se jo puis, /La voudrai si en romanz metre /Que cil qui n’entendent la letre /Se puissent deduire el romanz.

La selezione del destinatario

La voudrai si en romanz metre/Que cil qui n’entendent la letre / Se puissent deduire el romanz.

  

Lorenzo Dell’Oso

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